GUE/NGL: il compromesso sul TTIP ignora le preoccupazioni dei cittadini

Il gruppo dei socialdemocratici al Parlamento Europeo sta sbandierando il compromesso raggiunto in commissione commercio come un grande passo avanti. Ovviamente gli europarlamentari del PD hanno cominciato a far girare questa voce di propaganda negli ambienti del movimento STOP TTIP, dopo averlo ignorato per mesi.
Il GUE/NGL, il gruppo della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica che raccoglie le sinistre radicali di vari paesi europei, tra cui gli eletti della lista italiana L’Altra Europa e quelli di SYRIZA, ha votato contro il compromesso. Questo è il comunicato pubblicato sul sito del GUE:

I sostenitori dell’accordo commerciale ad ampio spettro (TTIP) tra Unione Europea e USA hanno ottenuto una larga maggioranza nel voto odierno alla commissione commercio del Parlamento Europeo su una risoluzione sulle richieste del Parlamento sui negoziati in corso.

Helmuto Scholz [Die Linke, Germania], relatore per il gruppo parlamentare GUE/NGL ha criticato questo risultato: “Il compromesso tra il relatore Lange (gruppo S&D [socialdemocratici, il gruppo del PD] e i gruppi conservatori e liberali ignora deliberatamente le profonde preoccupazioni espresse nel dibattito pubblico in molto paesi membri dell’UE a proposito della creazione di un mercato comune transatlantico.”

Ha aggiunto: “La grande maggioranza delle persone al di fuori della stanza del Comitato rifiuta il meccanismo di risoluzione delle dispute tra investitori e stati (ISDS), ma questo europarlamentari che ne sono favorevoli pensano di saperla più lunga. A mio parere, è arrogante che gli emendamenti tratti dalle opinioni di 5 altre commissioni, incluse quelle degli affari legali e degli affari costituzionali, che hanno chiesto di opporsi all’ISDS, siano stati completamente ignorati, tanto quanto 1 milione e 900mila cittadini europei che hanno già firmato una petizione contro l’ISDS.”

La commissione commercio ha anche respinto le richieste di prevenire la formazione di un “consiglio di cooperazione regolatoria” nel TTIP.

L’eurodeputata olandese Anne-Marie Mineur [Socialistische Partij] ha commentato: “E’ scandaloso vedere come alcuni gruppi politici siano disposti a rinunciare al controllo parlamentare sulle future leggi europee e degli stati membri. Questi europarlamentari, sostenendo il riconoscimento reciproco di differenti standard in Unione Europea e negli USA e alla procedura di sorveglianza per ogni legge che riguardi il commercio e gli investimenti, si dispongo a rinunciare alla democrazia parlamentare per la loro fede quasi religiosa nei benefici promessi del libero scambio.”

L’europarlamentare italiana Eleonora Forenza [L’Altra Europa – Rifondazione Comunista] ha spiegato: “Il TTIP non creerà posti di lavoro, è più probabile che ne brucerà un milione in tutta l’Unione Europa a causa dell’aumentata concorrenza. Questo è il risultato che esce da diversi studi sugli effeti [del TTIP] ed è stato confermato dal capo economista della Direzione Generale del commercio. In ogni caso, ogni nostra proposta, anche solo di nominare questi dati, è stata respinta al voto.”

Altra questione respinta al voto sono state la richiesta di un approccio di “lista positiva” alla salvaguardia di servizi pubblici e altri servizi importanti dagli impegni di liberalizzazioni, come richiesto dalla commissione delle regioni e da molte altre commissioni del Parlamento Europeo.

Rimetteremo in discussione degli emendamenti cruciali al voto in plenaria il 10 giugno, speriamo sinceramente che la maggioranza del parlamento voti diversamente dalla maggioranza della commissione commerci.” ha concluso Helmut Scholz. “Gli europarlamentari dovrebbero ascoltare i loro popoli nei loro collegi di elezione.”

Due note
L’ISDS è una delle parti più contestate dell’accordo. Sostanzialmente sarebbe un meccanismo per cui gli investitori (cioè, i capitalisti) potrebbero citare in giudizio gli stati che facciano delle leggi nocive per i loro affari. Per di più, è un meccanismo che non passa attraverso i tribunali degli stati ma attraverso dei tribunali privati. L’esempio classico è quello dei grandi produttori di sigarette che potrebbero portare in giudizio gli stati per la legislazione anti-fumo

L’approccio di “lista positiva” significa che si nominano esplicitamente i servizi esclusi dalla liberalizzazione.

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Spagna e Irlanda: istruzioni per l’uso

Non ci sono ancora risultati definitivi, però, subito alcuni punti:

1) Le candidatura di unità popolare non sono né di Podemos né di Izquierda Unida, tanto che dove i due partiti hanno fatto le loro liste cambiandogli solo il nome hanno ottenuto risultati in linea con quelli che hanno come singolo partito.

Comizio di Barcelona en Comù

Comizio di Barcelona en Comù

2) Grandi risultati, per carità. Ma cominciamo ad abbassare le aspettative. Alle elezioni politiche sarà diverso, le liste di unità popolare stanno ottenendo i sindaci grazie a una legge elettorale per cui, nel caso non si sia in grado di formare una maggioranza, viene comunque eletto sindaco il candidato della lista con più voti. Questo vuol dire che col 20-25% puoi avere il sindaco di minoranza. Al Parlamento invece bisogna ottenere la fiducia della maggioranza assoluta. Questo lo si vede anche dai risultati delle regionali, dove la formazione dei governi rimane in mano ai popolari e ai socialdemocratici.

3) Fare paragoni tra quello che succede in Spagna e quello che succede in Italia è semplicemente ridicolo. Chi lo fa non ha nessuna scusante, o è scemo o prende gli altri per scemi.

4) Già che ci siamo, diciamolo anche per l’Irlanda: NO, il Sinn Fein non è primo nei sondaggi. Il SF è secondo nei sondaggi dietro al partito conservatore di governo Fine Gael che sta sfruttando la ripresa economica per guadagnare consensi, ed è seguito a breve distanza dai centristi del Fianna Fail. Basta andare su Wikipedia e guardare il grafico dei sondaggi:

Blu Fine Gael, verde scuro Sinn Fein, verde chiaro Fianna Fail, rosso Labour, nero altri e indipendenti

Blu Fine Gael, verde scuro Sinn Fein, verde chiaro Fianna Fail, rosso Labour, nero altri e indipendenti

Nominalmente il sistema elettorale irlandese è proporzionale, in realtà è un po’ più complesso. La distribuzione dei seggi con numeri simili potrebbe essere:
Fine Gael 54-55
Sinn Fein 31-33
Fianna Fail 32-36
Labour 1-2
Altri/Indipendenti 32-40

Ora, come spiega la fonte, sono stime che possono variare. Però permettono di ragionare su come si fa a formare una maggioranza. Servono 79 seggi. L’attuale coalizione Fine Gael/Labour non avrebbe i numeri, la soluzione più naturale sarebbe una coalizione Fine Gael/Fianna Fail (magari puntellata dagli indipendenti conservatori).
A parte il fatto che l’alleanza con i verdi, i trotzkisti e con gli indipendenti veri e propri sarebbe difficilissima da gestire, ad ora non ci sono i numeri per un governo di sinistra guidato dal Sinn Fein.
All’interno degli altri/indipendenti sono conteggiati anche i Verdi, le formazioni trotzkiste Alleanza Contro l’Austerità e l’Alleanza Popoli Prima dei Profitti e la formazione conservatrice Renua Ireland. Tutti questi gruppi potrebbero stare attorno ai 5 deputati, anche se si tratta di stime che potrebbero calare sotto elezioni per il richiamo del voto utile. Rimangono quindi gli indipendenti veri e propri, che coprono tutto l’arco politico.

L’unica opzione di governo possibile per il Sinn Fein sarebbe un’alleanza con il Fianna Fail e con 10-15 parlamentari raccolti tra gli indipendenti. Possibilità tecnica ma politicamente quasi impossibile da gestire.

La Linke in Turingia

KEINE EXPERIMENTE? IL GOVERNO RAMELOW IN TURINGIA

di Guido Tana, su La Città Futura

Dalla fine di gennaio la vittoria di Syriza e le vicende seguenti hanno monopolizzato il dibattito interno alla sinistra europea. Eppure, circa un mese e mezzo prima di questo evento storico sullo scenario comunitario, un altro avvenimento riguardo il futuro e le possibilità della sinistra europea in tempi di crisi non ha avuto un risalto mediatico analogo o nemmeno lontanamente adeguato.
Il 5 Dicembre 2014, il Länder tedesco della Turingia ha eletto il suo governatore federale, dopo tre mesi di discussioni post-elezioni federali avvenute il 14 Settembre. Il suo nome è Bodo Ramelow, e subentra alla große Koalition che, a stretta guida CDU-SPD, aveva tenuto salde le redini dello stato federale dal 2009, dopo 19 anni di dominio democristiano. C’è tuttavia un dettaglio decisamente rilevante: non è membro dell’SPD. Bodo Ramelow è il primo presidente federale nella storia della Germania riunificata appartenente a Die Linke.

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Flassbeck e Lapavitsas: Against the Troika

Il libro di Flassbeck e Lapavitsas esplora le possibilità di un governo di sinistra alla guida di un paese dell’Eurozona e le possibilità di un governo di sinistra nell’uscita dall’Eurozona. Scritto prima della vittoria elettorale di Tsipras, è interessante leggerlo alla luce dei primi mesi del governo di sinistra ad Atene, mentre il “piano B” comincia a essere discusso.

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Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas – Against the Troika: crisi and austerity in the Eurozone – Versobooks – 144 pp – 14 euro/3 euro digitale

 

Flassbeck e Lapavitsas, insieme, non fanno esattamente l’immagine del no-euro come ce lo si immagina in Italia. Il libro Against the Troika: crisi and austerity in the Eurozone è difficilmente accusabile di populismo grillino o leghista, presenta un’argomentazione economica solida, ovviamente altri economisti pro-euro avranno argomenti per ribattere, ma si viaggia lontani dai terreni tipo “fuori dall’euro c’è il Paradiso Terreste, perché si”. È anche un libro europeista, l’argomento più emozionale è che l’attuale assetto sta disgregando l’Unione Europea ed è meglio fare ora un passo indietro per poter tornare in futuro a costruire un’Unione vera, d’altronde Flassbeck era consigliere di Lafontaine quando quest’ultimo era ministro delle finanze della Germania e costruiva materialmente l’Unione Monetaria Europea. Infine, è un libro internazionalista, sfidando così il luogo comune che vuole ogni messa in discussione dell’euro un cedimento alla nostalgia reazionaria delle piccole patrie; è scritto da un greco e da un tedesco e presenta testi aggiuntivi del giornalista inglese Paul Mason, del leader della Linke Oskar Lafontaine e del leader di Izquierda Unida Alberto Garzon.

L’Unione fallita

L’argomentazione principale di Against the Troika era già stata esposta dagli autori in un’analisi pubblicata sul sito della Fondazione Rosa Luxemburg, e viene esposta nel libro in maniera appena appena più discorsiva. Senza pretendere di farle giustizia, si può riassumere così: per Flassbeck e Lapavitsas l’idea della cooperazione monetaria non è sbagliata in sé, anzi, è necessaria e al di fuori di qualsiasi forma di cooperazione monetaria sarebbe impossibile per un governo progressista garantire che i propositi progressisti non vengano spazzati via dalla prima turbolenza internazionale (Capitolo 2.1). Il problema dell’Unione Monetaria Europea è però che è stata basata sui pregiudizi ideologici monetaristi della Banca Centrale Europea per cui l’unico metodo per governare l’inflazione sarebbe solo e soltanto la leva monetaria (Cap 2.2) escludendo così il governo di salari e profitti e quindi la possibilità di attuare una convergenza tra i vari paesi europei in una crescita coordinata dei salari e della produttività del lavoro (Cap 2.3-5). A questo si aggiunge che la BCE è venuta meno ai propri compiti di sorveglianza sulla Germania, essendo quest’ultima colpevole di aver tenuto la propria inflazione (e quindi i salari) più bassa dell’obiettivo comune europeo, un’infrazione che per gli autori è ben più grave della mancanza di rigore dei paesi periferici, che sono invece stati vigilati duramente dalla BCE (Cap 3)

Fuori dall’euro?

Per gli autori un qualunque governo di sinistra nei paesi della periferia (discorso diverso per i paesi semi-periferici, cioè Italia e Francia) si troverebbe di fronte a una “triade impossibile”, tre cose impossibili da sostenere contemporaneamente: la ristrutturazione del debito, l’uscita dall’austerità e la permanenza nell’Unione Monetaria Europea; le regole di quest’ultima sono fatte in modo che lo stato non possa effettuare gli interventi economici (per esempio, intervenire sul sistema bancario per affrontare le perdite dei privati in merito alla ristrutturazione del debito) necessari ai primi due punti (Cap 7.2).

Non è difficile leggere in questo una facile previsione di quello che è successo in questi mesi di governo Tsipras, non a caso Costas Lapavitsas (ora anche parlamentare) è l’economista di riferimento della Piattaforma di Sinistra, l’area di SYRIZA che giudicava irrealistica l’ipotesi dell’accordo onorevole già da prima delle elezioni . Quali sono quindi le alternative? Il libro affronta due possibili scenari di uscita, uno consensuale (cap 7.3) in cui l’Europa per evitare ulteriori conflitti negozia l’uscita e fornisce anche della liquidità per il tempo necessario ad Atene a sistemare la nuova emissione di moneta, uno conflittuale (cap 8) in cui ci sarebbe molto meno tempo. Il libro non nasconde certo i problemi dell’uscita, ma apre anche alla possibilità che un’uscita dall’Eurozona di un paese periferico potrebbe essere usata per tornare a sfruttare la manodopera ora disoccupata a fini di consumo interno e usare il disavanzo verso l’estero, ironicamente causato dall’austerità, per rifornirsi sul mercato internazionale dei beni difficili da produrre all’interno come medicinali e carburante. Un ritorno a un impiego così massiccio della manodopera potrebbe portare, soprattutto, a un mutamento dei rapporti sociali e alla possibilità di riaprire l’idea di un cambiamento reale della società a lungo termine. Per fare tutto questo, sia “consensualmente” sia “conflittualmente”, sono però necessarie delle premesse, desumibili dalla crisi cipriota: a) recupero delle capacità tecniche di battere moneta; b) doppia circolazione monetaria già in atto; c) controllo dei movimenti dei capitali. Per fare questo sono necessarie competenze tecniche che i tecnici cresciuti nell’era dell’euro non hanno, quindi è necessario richiamare in servizio tecnici dell’epoca della dracma e importarne da paesi esteri che detengono il know-how (leggasi, dalla Russia).

Ma, e qui sta per la mia lettura l’importanza del libro, un’eventuale Grexit non è solo questione di possibilità economiche e tecniche, non è una medaglietta da appuntarsi al petto durante una disquisizione accademica. Non è, per dirla con Mao, un pranzo di gala. È un fatto politico. Per gli autori i tre punti “tecnici-preliminari” servono anche e soprattutto a mobilitare l’opinione pubblica, alla battaglia politica, a preparare all’idea che l’uscita, specie quella conflittuale, deve essere affrontata in maniera determinata, sapendo per quanto possibile a cosa si va incontro.

E qui sorge un problema grosso: la linea elettorale di SYRIZA non è stata quella di preparare l’opinione pubblica all’uscita dall’euro, anzi, è stata quella di insistere, insistere, insistere sul compromesso onorevole coi creditori, tanto da negare la stessa esistenza di un “piano B”. E SYRIZA aveva le sue ragioni per farlo. Per Stathis Kouvelakis:” credo che l’egemonia ideologica della classe dominante in Grecia sia stata basata sul progetto europeo, sull’idea che aderendo al processo d’integrazione la Grecia sarebbe diventata un paese moderno, un “paese europeo sviluppato”, e sarebbe definitivamente e irreversibilmente entrata nel club delle società europee occidentali più sviluppate e avanzate. Io credo che sia una specie di fantasia di longue durée della Grecia come nazione indipendente: diventare una parte accettata dell’Europa occidentale. Nel primo decennio dopo l’entrata dell’euro è sembrato che questa fantasia fosse diventata realtà.” L’Unione Monetaria Europea (termine col quale sarebbe bene cominciare a riferirsi all’euro, per evitare di cadere nella trappola per cui si identifica la moneta unica con l’idea di Europa a qualunque livello) è stata e rimane per molti greci (specie della “classe media” che si è rivolta a SYRIZA dopo il fallimento delle grandi coalizioni) una forza simbolica-politica enorme, uscirne prima che una questione di fattibilità economica è questione di rinunciare al sogno di diventare tutti come la Germania. Ma è un sogno che forse sta cominciando a declinare. Per quanto possano valere i sondaggi, la maggioranza dei greci è ancora favorevole a rimanere nell’Eurozona, ma quando si chiede se è a tutti i costi, l’opinione pubblica si divide a metà. Sapendo che questo non verrà comunque deciso dal popolo greco, la questione diventa: SYRIZA sarebbe capace di organizzare il sostegno popolare nel caso dovesse trarre il dado e uscire dall’euro? O verrebbe piuttosto travolta, trovandosi il doppio danno di avere la Grexit gestita dalle destre?

SYRIZA, dopo aver mantenuto la barra sulla linea ufficiale per mesi, si sta muovendo su questo fronte. Il giornalista Paul Mason sostiene, da febbraio, che ci sia un’ondata di radicalizzazione dentro SYRIZA, anche tra chi non appartiene alle correnti radicali organizzate nella Piattaforma di Sinistra. Ora è anche la presidente del parlamento Zoe Konstantopoulou a prendere posizioni radicali sul debito che potrebbero portare alla rottura, mentre le posizioni di Lapavitsas vengono discusse apertamente su AVGI, l’organo ufficiale di SYRIZA.

La questione dell’uscita dall’euro viene, in Italia, usata come un derby tra tifoserie opposte che commentano le varie opzioni proposte dagli economisti, spesso senza capirle fino in fondo (piccola nota a margine: quanti hanno capito che Bagnai sostanzialmente propone lo “spirito del 1992-1993”?). Ma il punto non è solo studiare ciò che dicono i modelli economici, il punto è capire che  euro o exit sono opzioni che devono vivere dentro società particolari. Se non si capisce che la Grexit (o la proposta di uscita dell’Italia, o di qualunque paese) è un fatto politico e non tecnico, si può continuare a illudersi di essere quelli più di sinistra, quelli più anti imperialisti, quelli più rivoluzionari, ma ci si sta solo baloccando con delle ricette per l’osteria dell’avvenire.

Tsipras tra Europa e BRICS (e altre cose successe)

Articolo mio per il Collettivo Stella Rossa:

I rapporti con le nuove potenze “emergenti” sono comunque una risorsa importante per Atene, non è privo di significato che proprio mentre si svolgeva l’eurogruppo sia stata resa pubblica la notizia che la Grecia sta valutando l’offerta venuta dalla Russia di entrare tra i soci della New Development Bank, l’istituto finanziario creato dai BRICS. Quello che bisogna tenere in mente, però, è che questi sviluppi richiedono comunque tempo e che la crisi greca rischia di precipitare in ogni momento.

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Dal momento della stesura dell’articolo (11-16 Maggio), sono successe cose:

1) Il 18 maggio la segreteria di Syriza ha lanciato l’appello “L’Europa al momento della verità“, chiedendo la solidarietà di tutte le forze anti-austerità in cui spiega che il governo greco ha fatto di tutto per arrivare a un accordo. E in cui si sottintende che i cazzi amari sono in arrivo.

2) Sempre il 18 maggio c’è stato l’ennesimo documento fatto trapelare, stavolta è della Commissione Europea e si dice che l’Europa è disposta a dare 5 miliardi di euro in cambio di a) avano primario del 0,75% b) aumento dell’IVA dal 15 al 18%, abbassamento delle pensioni dei dipendenti pubblici, mentre si “concederebbe” di non toccare il mercato del lavoro. E’ lecito sospettare che un accordo del genere non passerebbe al parlamento greco e porterebbe a una scissione in SYRIZA.

3) il 20 maggio il governo greco ha annunciato che il 5 giugno, se non si troverà un accordo prima, potrebbe decidere di fare i pagamenti dell’amministrazione pubblica e non del debito nei confronti del Fondo Monetario Internazionale. Si noti che non ha annunciato, come riportano i giornali italiani, che lo farà di sicuro. Si noti anche anche che, comunque, questo conferma i calcoli fatti trapelare dall’FMI il 16 maggio, secondo i quali tra giugno, luglio e agosto la Grecia si troverà a fare default.

La carta di Milano è una boiata pazzesca

EXPO: La Carta di Milano. Sotto le parole nulla.

di Vittorio Agnoletto e altri

La Carta c’è, è ufficiale. E’ stata presentata coi toni dei grandi eventi istituzionali che cambiano la Storia. Ma non sarà così.

La Carta di Milano scivolerà nella storia senza incidere alcunché, legittimando ancora il modello agroalimentare che ha prodotto insostenibilità, disastri ambientali e le terribili iniquità che vive il nostro mondo e che la stessa Carta denuncia ma ignorando lo strapotere politico delle multinazionali, che stanno dentro ad Expo e che sottoscrivono la Carta. […]

La “Carta di Milano”, presentata come l’eredità che EXPO lascia al mondo, è una grande operazione mediatica, che si limita a dichiarazioni generiche senza andare alle cause e alle responsabilità della situazione attuale. […]

Nella “Carta” si parla di  diritto al cibo equo, sano e sostenibile, si accenna persino alla sovranità alimentare, si ricorda che il cibo oggi disponibile sarebbe sufficiente a sfamare in modo corretto tutta la popolazione mondiale, si  sprecano parole nate e vissute nella carne dei movimenti, ma poi?

La responsabilità di tutto questo sarebbe solo dei singoli cittadini: dello spreco familiare ( che è invece surplus di produzione) che andrebbe  orientato verso i poveri e verso le opere caritatevoli, sta nella loro mancanza di educazione ad una corretta alimentazione, al risparmio di cibo e di acqua, ad una  vita sana e sportiva.

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Non che ci volesse la scienza di Cavour per capirlo, ma adesso siamo alla certificazione. Le brave associazioni che si sono messe a lavorare dentro EXPO (expo dei popoli, expo diffuso e chi più ne ha…) sono state l’utile idiota del progetto di greenwashing attuato dalle multinazionali. Ovviamente sono state concesse tutte le circonvoluzioni di parole che volevano le associazioni, fino al limite in cui si dovesse andare a toccare le ragioni strutturali della “fame nel mondo”. La Carta di Milano rimane tutta all’interno del filone neo liberale per cui il problema è riconducibile a una serie di scelte personali, con un accenno di senso di colpa cattolico (“non avanzare i broccoli che al mondo c’è la gente che muore di fame!”) così è contento anche Sua Santità.

Dovrebbero, le associazioni che hanno voluto partecipare a EXPO, provare a trarre delle conclusioni da tutto questo. Dovrebbero provare forse anche un po’ di imbarazzo rispetto alla retorica usata (ricordo un dirigente nazionale ARCI sostenere che stare dentro EXPO fosse in piena continuità con lo spirito di Genova2001). Dovrebbero riconsiderare l’atteggiamento tenuto da un paio d’anni a questa parte verso coloro che consideravano EXPO “non emendabile”.

D’altra parte, sono sicuro che non lo faranno.

 

 

La Giornata della Vittoria

Il ghigno d’ignoranza con cui i giornali occidentali si esaltano per la mancata partecipazione del cosiddetto “occidente” alle celebrazioni del settantesimo anniversario della sconfitta del nazismo è preoccupante.

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1) Storicamente è penoso vedere i paesi che sono stati liberati dal nazismo dimenticarsi con leggerezza che questo è successo grazie a più di venti milioni di vittime sovietiche. Tutta la retorica della memoria viene buttata nella spazzatura per sovrapporre alla Storia la polemica odierna con Putin.

2) A Mosca c’erano gli africani, i sudamericani, gli asiatici. In pratica c’era il mondo, tranne gli Stati Uniti e il loro sistema di alleanze. La pervicacia con cui i giornali occidentali, e quelli italiani in particolari, vogliono continuare a vivere in un mondo in cui l’occidente è ancora la potenza incontrastata e il resto può solo aspettare di ricevere la benevolenza dei padroni bianchi è, oltre che eticamente rivoltante, il sintomo di quanto si viva fuori dalla realtà.

3) In realtà degli occidentali alle celebrazioni di Mosca c’erano: il presidente cipriota Anastasiadis e il presidente greco Tsipras. Non è cosa di poco conto che non li si consideri “occidentali”, è solo uno dei tanti mezzi in cui si delegittimano due governi in conflitto forte con l’Unione Europea (Cipro sta sollevando la questione di come è stato gestito il “salvataggio” delle banche). Sostenere sottilmente (neanche tanto…) che la Grecia non sia occidente è una maniera per recidere i legami sentimentali degli europei verso la Grecia (da “culla della civiltà europea” a “amica del pittoresco tiranno orientale”) e quindi legittimare tutti i pesantissimi ricatti a cui sottoposta. Chiaramente, questa è una linea sottile che non implica che ci sia una regia unificata che da una qualche segreta stanza ordisce un complotto. Un po’ peggio, implica che tutta la stampa italiana sia predisposta a ricevere i segnali che vengono mandati dai governi che contano, ed eseguire.

Italicum

Perchè scrivere quando c’è chi dice molto meglio le cose?

Una testa, un voto: perché il proporzionale è la lezione fondamentale della rivoluzione francese. E perché, in Italia, è la democrazia

di Gianpasquale Santomassimo, Il Manifesto 29 gennaio 2014   Tutti hanno potuto con­sta­tare il crollo ver­ti­cale di cre­di­bi­lità e di rap­pre­sen­tanza che la poli­tica ha vis­suto negli ultimi vent’anni. Eppure per­si­stono leg­gende radi­ca­tis­sime che demo­niz­zano la “prima Repub­blica”. C’erano troppi par­titi, si dice. Erano media­mente sette: nulla a che fare con gli oltre qua­ranta rag­grup­pa­menti cen­siti all’epoca dei governi di Sil­vio Ber­lu­sconi. C’erano pic­coli par­titi, si dice. C’era qual­che pic­colo par­tito, digni­toso e pieno di sto­ria, come il par­tito repub­bli­cano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “respon­sa­bili” di Sci­li­poti e via dicendo. Cam­bia­vano troppi governi, si dice, vero, ma si dimen­tica la sostan­ziale con­ti­nuità di un sistema poli­tico che ha avuto pochis­sime svolte nell’arco della sua esi­stenza. Se si fosse voluto vera­mente ovviare a que­sto pro­blema si poteva inse­rire in Costi­tu­zione il prin­ci­pio della sfi­du­cia costrut­tiva, che garan­ti­sce la sta­bi­lità della più solida demo­cra­zia euro­pea, quella tede­sca, che era – con molte dif­fe­renze — anche la più vicina al nostro ordinamento. E a pro­po­sito di sistema tede­sco, va ricor­dato come, nel suo totale anal­fa­be­ti­smo isti­tu­zio­nale, Mat­teo Renzi abbia dichia­rato più volte che è incon­ce­pi­bile che la Mer­kel pur avendo vinto le ele­zioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le oppo­si­zioni. Ma si chiama demo­cra­zia par­la­men­tare, non è la “Ruota della For­tuna”, per gover­nare devi avere una mag­gio­ranza in par­la­mento, e anche prima delle ultime ele­zioni la Mer­kel non aveva la mag­gio­ranza asso­luta ma gover­nava assieme ai libe­rali, ora scom­parsi dal par­la­mento. E non è vero che “in tutto il mondo” la mino­ranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuz­zaro, come ritiene il poli­tico di Rignano sull’Arno: que­sta assur­dità esi­steva solo nel nostro sistema elet­to­rale che la Corte ha dichia­rato inco­sti­tu­zio­nale. […] Si usa dire, anche a sini­stra, che il pro­por­zio­nale ren­de­rebbe obbli­ga­to­rie le lar­ghe intese. Non è affatto vero: per­ché un sistema elet­to­rale com­porta scelte diverse da parte degli elet­tori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in nega­tivo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coar­tato può final­mente rispec­chiare il paese reale e dar­gli rap­pre­sen­tanza. Certo que­sto sistema richie­de­rebbe comun­que intese come è nella nor­ma­lità della demo­cra­zia par­la­men­tare, e richie­de­rebbe capa­cità di far poli­tica, di tro­vare media­zioni, di dare rap­pre­sen­tanza alla com­ples­sità della società. Temo che qui si apri­rebbe una bat­ta­glia molto dif­fi­cile, soprat­tutto a sini­stra, dove la droga mag­gio­ri­ta­ria ha fatto per­dere com­ple­ta­mente la cogni­zione della realtà e dei rap­porti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “voca­zione mag­gio­ri­ta­ria” (che in genere è ser­vita a creare mag­gio­ranze altrui), ma anche i cespu­glietti subal­terni che non sareb­bero in grado di supe­rare il quo­rum ma con­du­cono vita paras­si­ta­ria in sim­biosi con l’organismo del par­tito maggiore. Per leggere tutto clicca qui. renzi_riformaelettoraleR439_thumb400x275 Ma alcune cose da aggiungere ci sono. Innanzitutto, l’Italicum è una brutta legge elettorale, ce ne avevamo una brutta (la famosa “porcata”), la Corte Costituzionale aveva fatto un lavoro di taglia e cuci che consegnava una legge decente, ovviamente non era realistico che potesse durare. Tra i tanti problemi dell’Italicum il fatto che possa consegnare la maggioranza assoluta a Renzi non è neanche il più grosso. Con l’Italicum qualunque avventuriero populista potrebbe avere la maggioranza assoluta (Grillo se dice bene, Salvini se dice male, qualcosa di peggio di tutti e tre che ancora non vediamo se ci dice malissimo), senza che ci sia una qualche possibilità di dare battaglia dall’opposizione. L’impressione è che gli apprendisti stregoni stiano evocando il modello francese mentre sono gli stesso apprendisti stregoni francesi a essere impanicati dall’idea che la Le Pen possa vincere il ballottaggio. Nell’Italia 2015 ci si può aspettare di fare la mobilitazione per la salvezza della Repubblica come in Francia nel 2002 al ballottaggio Chirac-Le Pen (padre)? In secundis, Mattarella. Quando viene eletto a un’alta carica dello stato che non sia un mafioso, un ladro o un buffone con tanto di naso rosso, parte sempre la retorica su quanto cambiamento ci si possa aspettare (vedi Boldrini e Grasso). All’elezione di Mattarella uno degli argomenti forti era:”Stava nella Corte Costituzionale che ha bocciato all’unanimità il Porcellum, vedrete che non farà sconti neanche a Renzi”.

italicum

Infatti…

La Corte Costituzionale ha segato premi di maggioranza spropositati e l’impossibilità di “scegliere i parlamentari”. La risposta dell’Italicum è di dare il premio di maggioranza al primo turno al 40%, oppure al secondo turno. Per quanto riguarda la “scelta”, invece, c’è il sistema dei capilista bloccati che, con collegi più piccoli, vuol dire che comunque saranno molto pochi gli eletti tramite preferenza e moltissimi quelli tramite capilista bloccati. Ora, è evidente a tutti che si tratta di aggiustamenti cosmetici, rimane la sostanza che c’è un premio di maggioranza spropositato che trasforma la “maggior minoranza” in una maggioranza assoluta e che la “scelta dei parlamentari” rimane in larghissima parte fatta a prescindere da chi decide la composizione delle liste. Quindi, perchè Mattarella ha firmato? Quattro opzioni: 1) Mattarella è convinto che gli aggiustamenti siano di sostanza e non cosmetici. Di fatto è la tesi sostenuta dai costituzionalisti di regime, quelli che con sprezzo del ridicolo vanno in tv a dire che è stata istituita una “soglia minima del 50%”. Verrebbe da chiedersi che sostanza assumono per confondere ballottaggio e soglia minima, ma tant’è, è una tesi che ha cittadinanza nel giro che conta. 2) Mattarella ha dubbi sugli aggiustamenti ma ritiene che una questione cosi “di fino” debba essere affrontata, un’altra volta, dalla Corte e non dal Presidente della Repubblica. Anche questa tesi, cioè che il controllo costituzionale del Presidente sia da intendersi come controllo su cose macroscopiche mentre per le questioni di interpretazione c’è la Corte, è una tesi che gira negli ambienti che contano. 3) Versione cospirazionista: la Corte non era unita, ma per evitare polemiche pubbliche decise di fare uscire il verdetto come unanime. Tesi affascinante perchè implicherebbe che Mattarella sarebbe in realtà asceso al Colle proprio perchè in quella decisione lui stava dalla parte del “maggioritario”. Ma assolutamente indimostrabile quindi inutile da discutere ulteriormente. 4) La versione che personalmente preferisco: qualunque fosse l’opinione di Mattarella, ora è in un ruolo diverso. Napolitano non è passato invano, la presidenza della Repubblica da ruolo di garanzia della Costituzione, rivolto agli italiani, è diventato un ruolo di garanzia della “stabilità”, rivolto ai cosiddetti “poteri forti”: finanza internazionale, Unione Europea, NATO. Nel momento in cui Mattarella accetta di diventare il Presidente della Repubblica, accetta che non può aprire un conflitto su una legge che da “stabilità”. E’ la Terza Repubblica, bellezza.