Dopo il 18 novembre: linee di politica estera a sinistra

Il sottoscritto sull’ultimo numero de La Città Futura

Dopo il 18 novembre: linee di politica estera a sinistra

Su Ue, Nato,america latina qual è la posizione delle sinistre (oltre a Eurostop, che si esprime da tempo) su questi temi nel post-Brancaccio?

Il fallimento del Brancaccio e l’assemblea lanciata dall’Ex Opg – Je So Pazzo hanno reso chiari quali sono i progetti che si presenteranno, o proveranno a presentarsi, alle prossime elezioni politiche. A “sinistra del PD” lavorano tre possibili liste: la riedizione bonsai del centrosinistra tra MdP, Possibile e Sinistra Italiana, la “lista popolare” che si prova a lanciare dopo l’assemblea al Teatro Italia e infine la bicicletta trotzkista annunciata da un articolo comune di Sinistra Classe Rivoluzione e del PCL.

Per quanto si tratti di processi in corso, è già possibile provare a capire quali saranno le linee di politica estera di queste formazioni. In particolare, per quanto riguarda il rapporto col “vincolo esterno” dell’Unione Europea, con la NATO e la visione sul Sud America, che negli anni è diventato una cartina tornasole dell’avvicinamento o allontanamento dalle “compatibilità del sistema”.

Il centrosinistra bonsai

L’alleanza D’Alema-Civati-Fratoianni non ha ancora una forma organizzativa e per ora la sua proposta politica consiste in un poco convincente tentativo di riproporsi come rappresentanti del lavoro e soprattutto di polemica con l’ex alleato Matteo Renzi. Poco o nulla è detto a proposito di ciò che accade oltre i confini italiani. Come abbiamo segnalato su La Città Futura, alcuni membri di MdP hanno provato a dispiegare qualche posizione vagamente più coraggiosa rispetto a quelle del PD, salvo annegarle nella fedeltà all’impianto pro Unione Europea e pro NATO.

Retoricamente, potrebbe bastare ricordare ciò che Edward Lutwak disse del leader Maximo: “qui a Washington ricordiamo D’Alema come l’unico premier italiano che ha combattuto da alleato al fianco degli Stati Uniti. Fin dall’inizio, senza cambiare idea e senza distinguo. Ci ricordiamo che è stato leale, fedele, serio e che non ha ceduto di un millimetro nonostante nel suo partito ci fosse una componente pacifista”.

Nella retorica dei nuovi DSc’è però almeno un riferimento programmatico elaborato: il programma di Italia Bene Comune, quando il centrosinistra era ancora guidato da Bersani. Nella Carta d’Intenti del centrosinistra – composto allora da PD e SEL – si leggeva che l’unico progetto possibile per l’Italia sarebbe stato quello europeo, da rilanciare, rafforzando la piattaforma dei “progressisti europei” (di fatto, il Partito del Socialismo Europeo). Secondo Italia Bene Comune, i due assunti europeisti dell’austerità e dell’equilibrio dei conti pubblici sono necessari benché non debbano diventare dei dogmi fini a se stessi. Infine, la soluzione era, ovviamente, “più Europa”.

Sul Sud America, infine, risuonano ancora le parole di Bersani che temeva che, in Italia, dopo Berlusconi sarebbe arrivato un Chavez. L’integrazione dei nuovi DS nella famiglia della socialdemocrazia europea mantiene ferma questa posizione, come dimostra l’assegnazione del Premio Sakharov per la libertà di espressione alla “opposizione democratica venezuelana”. Il premio è assegnato, di fatto, come accordo politico tra il gruppo europeo dei socialdemocratici e quello dei cristiano-democratici. Sarebbe interessante sapere cosa pensa di questo Sinistra Italiana, che ha aderito come osservatore al Partito della Sinistra Europea. D’altra parte, gli eurodeputati di Sinistra Italiana in realtà restano divisi in Europa: Curzio Maltese resta nel GUE/NGL (che contesta il Premio Sakharov), mentre Cofferati continua a lavorare nel gruppo socialdemocratico.

Dopo il Teatro Italia

L’insieme di forze che ha lanciato l’idea di una “lista popolare” deve ancora elaborare il suo programma. Quello che è sicuro, è che si gioca in tutt’altro campo rispetto a quello del nuovo centrosinistra. La maggior parte degli interventi si è concentrata sul conflitto tra capitale e lavoro, sulle vertenze e sulle lotte realmente esistenti in Italia. E poi, la discussione sul vincolo esterno dell’Unione Europea. Al Teatro Italia non si sono sentiti richiami a “più Europa”, “Europa dei popoli”, “Europa sociale”. Anzi, chi ha battuto sulla dimensione europea l’ha fatto per chiedere ancora più nettezza nella rottura con la gabbia dell’UE.

Una delle novità dell’assemblea al Teatro Italia è stata proprio la discussione aperta sul tema, a differenza delle innumerevoli altre “esperienza democratiche e partecipate” in cui le posizioni euro-critiche, anche le più timide, venivano relegate a una piccola minoranza da zittire agitando l’accusa di essere cripto-lepenisti.

I tremendi trascorsi del centrosinistra come attuatore dell’atlantismo hanno lasciato il segno. Il D’Alema della guerra del Kosovo, il centrosinistra delle missioni in Afghanistan e Iraq sono – negli interventi al Teatro Italia e nelle discussioni successive – tra i più pesanti motivi per cui non è neanche lontanamente immaginabile l’ennesimo accordo di bassa lega con la sinistra istituzionale.

Sul Sud America, le organizzazioni che hanno partecipato all’assemblea hanno una lunga storia di solidarietà con i governi bolivariani e in generale con le esperienze di sinistra di quei Paesi. L’unica organizzazione a fare eccezione su questo punto sembra essere Sinistra Anticapitalista, che ha sostenuto nell’ultimo periodo gruppi venezuelani di opposizione a Maduro.

La bicicletta

L’idea di una “lista rivoluzionaria” lanciata dalle due organizzazioni trotzkiste è in aperta polemica con il processo lanciato al Teatro Italia, che viene accusato di limitarsi a una linea “antiliberista” e riformista che non mette in discussione il vincolo esterno dell’Unione Europea. Critica ingenerosa, come abbiamo visto la discussione sul vincolo esterno esiste. Si tratta anche di una critica nuova per SCR e PCL. Basta tornare indietro al referendum inglese sulla permanenza del Regno Unito nell’UE e vedere le posizioni di allora. Entrambe le organizzazioni hanno sostenuto che la permanenza nell’UE era un falso problema e lanciavano la parola d’ordine degli stati uniti socialisti d’Europa. Per la verità, mentre SCR articolava un discorso più complesso sulle forze che hanno sostenuto la Brexit e riconosceva la natura in parte classista del voto, il PCL addossava la lotta contro l’UE e contro l’Unione Monetaria alla destra di Farage, Le Pen e Salvini.

Dalla “lista rivoluzionaria” è stato criticato anche l’accento populista dell’assemblea del 18 novembre, sostenendo, letteralmente, che siano state “le concezioni di Laclau, che enormi disastri hanno prodotto in America Latina facendo salire la classe lavoratrice sul carro dei movimenti populisti borghesi”. Una liquidazione così brutale dell’esperienza sudamericana stupisce, soprattutto da parte di SCR, che fa parte della Tendenza Marxista Internazionale che, pur con molte distinzioni e criticità, continua a essere parte attiva nel governo bolivariano del Venezuela.

Riunire la classe, costruire il blocco sociale, lanciare l’alternativa

Editoriale del n. 153 de La Città Futura, a firma mia e di altre compagne e compagni (elenco completo in fondo all’articolo)

Riunire la classe, costruire il blocco sociale, lanciare l’alternativa

Dopo il fallimento del Brancaccio, costruire un’alternativa delle classi popolari.

“L’unità senza principi è una falsa unità”
Ernesto “Che” Guevara

1 Brancaccio: cronaca di un fallimento annunciato

Il fallimento del percorso del Brancaccio segna un punto di rottura nello scenario delle possibili prospettive per la lotta di classe del nostro Paese. Da svariati anni, a ogni turno elettorale, nazionale o non, siamo stati costretti ad assistere a dinamiche sempre meno convincenti. Partiti che portano nel loro nome riferimenti espliciti alla lotta di classe e al comunismo si sono piegati a processi elettoralistici lanciati da realtà e in contesti totalmente refrattari alle esperienze più conflittuali del Paese, senza nessun collegamento rispetto alle contraddizioni che i lavoratori, i disoccupati, gli studenti e tutti gli sfruttati vivono quotidianamente sulla propria pelle.

Ripensando alle esperienze di “Cambiare si può”, “Rivoluzione civile”, “L’altra Europa” e alla miriade di proposte regionali e comunali, non era difficile prevedere che l’Assemblea del Brancaccio sarebbe naufragata appena i nodi fossero venuti al pettine. Le aspettative suscitate sono state spezzate già durante le fasi della prima assemblea con l’estromissione dei compagni di “Je so’ pazzo e l’allontanamento dei rappresentanti del PCI, per lasciare posto ai vari D’Alema e Bersani. Nei fatti, la prima parola d’ordine, riecheggiata nelle parole dei “garanti” dell’assemblea del 18 giugno, è stata la “costruzione di un’unica lista a sinistra alle prossime elezioni politiche”. Elettoralismo e unitarismo senza contenuti contro cui, oggi possiamo dirlo, poco hanno potuto fare quelle voci dissenzienti che provavano ad articolare un ragionamento radicale, in quella occasione come nei momenti di confronto locali successivi. Chi ancora poteva essere onestamente convinto delle potenzialità di questo percorso lo era perché ancora una volta raggirato dalla retorica della “sinistra unita” sbandierata per sommi capi dagli intellettuali di turno ed in maniera del tutto autoreferenziale e subalterna alla sinistra liberale, imperialista e settaria.

Sì, settaria: preferendo l’opportunismo elettoralistico alla costruzione di una reale prospettiva che a partire dai conflitti e dalle forze sane della realtà sociale e politica sapesse guardare alle elezioni come vera forma di rappresentanza, si escludevano dal proprio bacino di influenza milioni di cittadini, in primo luogo lavoratori e giovani studenti, che rifiutano la politica perché essa non è capace di rappresentarli. Rigettando le realtà conflittuali, le esperienze di lotta e le organizzazioni che ogni giorno combattono contro le ingiustizie del capitalismo, si perfezionava una precisa volontà di epurare le posizioni di rottura dal dibattito e dalla costruzione della lista.

In questo risiedono, in primo luogo, le ragioni del fallimento del Brancaccio: la proposta era, in origine e per sua natura, una proposta elettoralistica e opportunista che non aveva interesse a rappresentare e a dare voce e soggettività politica a chi ogni giorno è vittima del capitale. La successiva pantomima che ha coinvolto il Movimento dei Progressisti e Democratici non ha causato di per sé il fallimento del Brancaccio, bensì ne ha concretizzato le contraddizioni che le componenti più avanzate avevano fin dal principio denunciato: a cominciare dalla compromissione di MdP con tutte le politiche neoliberiste, dall’appoggio ideologico alle riforme delle pensioni, alla cancellazione dell’articolo 18 e alla complessiva stretta dell’austerità perpetrata contro la classe lavoratrice. La precipitazione degli eventi, dovuta essenzialmente all’accordo col PD sui collegi elettorali e che ha visto coinvolte le forze moderate del Brancaccio (MdP, SI, Possibile), ha smascherato la realtà dei fatti.

Nel quadro desolante attuale, molti compagne e compagni hanno guardato con interesse a questo ennesimo tentativo di “unità della sinistra“. Una speranza mal riposta, ma assolutamente comprensibile. La realizzazione di questa aspettativa passa in primo luogo attraverso un differente modus operandi, che tragga consapevolezza dal fatto che le classi subalterne non possono trarre reali benefici da accordi fatti a tavolino fra le segrete stanze del primo soggetto che si proclami genericamente di sinistra. Noi non facciamo politica per placare la nostra delusione. Noi facciamo politica per organizzare le classi popolari, per migliorare le nostre condizioni materiali e, in prospettiva, per costruire un’alternativa al capitalismo imperialista. Per questo, dobbiamo ripartire dalla dura realtà dei fatti.

2 Il mondo reale della classe

Nella realtà, in Italia, la classe lavoratrice è quella che ha di gran lunga subito maggiormente gli esiti peggiorativi delle riforme della scuola, dell’università, della sanità e del lavoro. Gli effetti della crisi capitalistica e delle guerre imperialiste con il loro strascico di flussi migratori, da un lato lasciano le classi subalterne sole davanti all’attacco della grande borghesia e dall’altro le danno in pasto ai rinascenti gruppi neofascisti di chiara matrice razzista e xenofoba, che, come sempre, fanno dell’insicurezza sociale un grimaldello a protezione delle classi dominanti.

Dopo trent’anni di politiche neoliberiste di contrazione salariale, liberalizzazioni e precarizzazione, le politiche di austerità sono diventate il “nuovo normale” in nome dell’uscita dalla crisi che ormai ha assunto durata decennale e strutturale. Dopo un decennio di crisi non andiamo verso anni di espansione: l’austerità, la disoccupazione di massa, la perdita di capacità produttiva sono diventate anch’esse strutturali. I cambiamenti nella struttura economica sono stati sigillati dalle riforme dei governi neoliberisti susseguitisi sotto casacche di centro-destra e centro-sinistra: una scuola pubblica dell’obbligo indirizzata a una segregazione classista; la diminuzione del 10% delle iscrizioni all’università che significano l’espulsione di interi settori popolari dall’istruzione superiore; la liberalizzazione dei rapporti di lavoro e l’assalto alle strutture sindacali che rifiutano di diventare puri fornitori di servizi fiscali ed interpretano il proprio ruolo di conflitto e organizzazione dei lavoratori; la repressione delle conflittualità sociali e la criminalizzazione dei flussi migratori.

Un nuovo ordine, suggellato e protetto dalle istituzioni dell’Unione Europea: istituzioni in cui non solo trovano origine e primo sostegno tutte le politiche di impoverimento dei popoli europei, ma che hanno anche favorito un processo di concentrazione, potenziamento e liberazione dei capitali, in particolare finanziari. Istituzioni tutte conniventi con gli impulsi imperialistici e guerrafondai del XXI secolo, come in Libia così in Ucraina. Istituzioni che, non in grado di dare risposte ai bisogni sociali delle loro popolazioni, sono ancor meno capaci di curare i bisogni di accoglienza delle popolazioni in fuga dalla guerra e dalla miseria, spesso frutto dell’imperialismo degli stessi Stati Europei. Questi uomini e donne diventano così nuovo soggetto da utilizzare per gli interessi capitalistici nazionali, nuova carne da cannone per la criminalità, il lavoro nero, lo sfruttamento più bieco. Ma diventano, anche, merce di scambio e fonte di profitto per i governi con cui le istituzioni Europee stringono patti per il regolamento dei flussi, dando loro ossigeno finanziario e copertura diplomatica. A Est finanziamo governi carnefici, a Sud regimi di prigionia schiavistica. È questo il nuovo volto dell’imperialismo, oggi ancor più sviluppato rispetto a 100 anni fa quando il suo potere venne incrinato per la prima volta nella Storia dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Siamo, ormai, in un nuovo assetto sociale e politico, tutto orientato a radere al suolo diritti economici e sociali a livello di massa, a creare nuove e più acute contraddizioni tra soggetti sociali: frammentati, disorientati, in lotta per la sopravvivenza materiale, i pezzi sparsi – antichi e nuovi, italiani e stranieri – della nostra classe di riferimento hanno sempre meno armi politiche, sociali e culturali di difesa. Mentre starebbe il momento di passare all’attacco.

3 Lotte di classe in Italia

Eppure, anche in questo contesto di incapacità organizzativa, alcuni elementi di contrattacco ci sono. Si evidenziano elementi di conflittualità, frammentata e a volte localistica, che vanno dall’esperienza ormai lunga più di vent’anni della Valsusa ai movimenti per il diritto alla casa, passando per le lotte degli operai della logistica, della ex Almaviva, delle tante rivendicazioni sindacali sparse in tutto il paese, fino alle lotte dei braccianti e alle grandi vertenze dell’Alitalia e dell’Ilva di Taranto. Alcune di queste lotte hanno per forza di cose caratteristiche difensive e temporanee, altre riescono già a darsi prospettive e forme organizzative più larghe. In particolare, il tentativo dei sindacati di base di declinare in ambito nazionale le vertenzialità diffuse e trasformarle in uno sciopero nazionale è riuscito, al netto delle adesioni parziali delle altre organizzazioni di classe. Le giornate del 27 ottobre e del 10 novembre, in cui sono stati proclamati scioperi con piattaforme rivendicative avanzate, hanno visto un’importante fetta del mondo operaio e salariato fermarsi.

A dimostrare che ci troviamo in una fase in cui i semi di un esteso e organizzato conflitto possono essere gettati, sta il fatto che lotta sindacale e lotta sociale sembrano finalmente intrecciarsi profondamente: non perchè organizzazioni sindacali provano a sostituirsi ad altre organizzazioni sociali o politiche, ma perché i sindacati più conflittuali acquisiscono coscienza per estendere le proprie rivendicazioni oltre la sfera della vertenzialità e le politicizzano, così come è avvenuto con la manifestazione di sabato 11 novembre a Roma. Indetta da Eurostop con un fondamentale apporto organizzativo di USB, quella mobilitazione è diventata poi catalizzatore di una larghissima fetta del “No sociale” al referendum costituzionale. È la dimostrazione che ancora esiste e si organizza un pezzo di società che vuole cambiare lo stato di cose attuale agendo sui rapporti di forza, più che affidando la rappresentanza parlamentare al consumato circo del centro-sinistra. Il successo del corteo non si è misurato solo nei numeri ma anche nella sua composizione, che mostra quali siano i settori sociali più avanzati. La necessità di coniugare organizzazione e lotta è emersa contemporaneamente anche nella manifestazione nazionale del PC e del FGC di sabato 11 novembre. Oltre a esplicitare rivendicazioni attuali per il lavoro e per la pace, essa ha segnalato l’urgente bisogno di una proposta di fase comunista, sebbene non possa essere sottovalutato che questa urgenza rimanga tuttora frammentata, da connettere necessariamente alle mobilitazioni più larghe.

4 Proposte politiche per il blocco sociale

Il fallimento del Brancaccio rappresenta oggi un’opportunità per la lotta di classe nel nostro Paese.

L’appello lanciato dai compagni dellEx OPG “Je so’ Pazzo” per un’assemblea popolare il 18 Novembre ci sembra porre finalmente un buon punto di partenza per la costruzione di uno spazio pubblico in cui si possa costruire un fronte utile alle classi popolari tra le realtà autorganizzate di lotta, di conflitto e di mutualismo e le organizzazioni di classe attive a livello nazionale, come i partiti comunisti, i sindacati di base e i soggetti promotori di Eurostop. Siamo consapevoli delle differenze – teoriche e pratiche – tra le diverse realtà che hanno aderito all’assemblea di Sabato 18 Novembre, ma pensiamo che sia una possibilità di aprire un confronto fra quanti elaborano un’analisi e una proposta di classe alternativa a quella del capitalismo e pensiamo che debba essere un passo in un percorso più lungo.

Questa apertura si presenta vicinissima alla prossima scadenza elettorale nazionale. Eppure, per essere veramente efficace nel restituire soggettività e protagonismo alle classi subalterne, e per evitare qualunque appetito opportunistico, questo percorso deve provare a guardare oltre una lista elettorale a rischio di autoreferenzialità: si deve porre la prospettiva di lungo termine della ricostruzione di un blocco sociale. In quella assemblea dovremo, tutti, partire da un confronto di ampio respiro su temi, programmi e prospettive per rilanciare la lotta di classe in questo Paese. Con questo spirito, dobbiamo mirare ad un fronte unitario tra i partiti comunisti, i sindacati conflittuali, i soggetti promotori di Eurostop, i collettivi e le realtà autorganizzate, i movimenti sociali. Il blocco sociale si riunisce intorno ad alcune proposte su come organizzare i soggetti subalterni e su quale programma di lotta dar loro. Noi facciamo le nostre proposte: dobbiamo puntare alla ricomposizione delle lotte nei luoghi di lavoro, che parte dall’analisi della composizione della classe sociale di riferimento, elemento essenziale per qualsiasi presupposto di rappresentanza. Dobbiamo puntare a stimolare la presa di coscienza dei soggetti sfruttati che non sono in lotta o che non hanno voce, come gli immigrati. Il programma dovrà essere di seria modifica radicale dei rapporti di forze sociali ed economici: partendo dal tema delle nazionalizzazioni e del possesso dei mezzi di produzione, della pianificazione economica, della restituzione dei diritti allo studio, alla salute e all’abitare. In tutto questo, non potrà non avere un ruolo la questione dell’uscita dalla Nato, dalle strutture di guerra imperialista, e dall’Unione Monetaria e auspichiamo anche che si apra una discussione seria e scevra da pregiudizi e accuse strumentali di sovranismo sulla permanenza stessa nell’Unione Europea. Questi sono gli elementi che riteniamo possano essere il collante di un nuovo fronte politico, sindacale e sociale, che sappia, in prospettiva, entrare nelle contraddizioni della società dando rappresentanza a operai, studenti, immigrati, tentando poi di proiettarli verso la guida del Paese.

Autori: Angelo Balzarani, Joseph Condello, Marco Nebuloni, Alessandro Pascale, Chiara Pollio, Paolo Rizzi, Emanuele Salvati, Marcello Simonetta, Lia Valentini

Apparso originariamente su https://www.lacittafutura.it/editoriali/riunire-la-classe-costruire-il-blocco-sociale-lanciare-l-alternativa.html

La Nuova Era cinese

Il sottoscritto per La Città Futura

La Nuova Era cinese – Parte I : il potere di Xi Jinping

L’idea che la Cina stia tornando al potere assoluto assomiglia più all’incubo di alcuni occidentali che alla realtà dei fatti.

Si è concluso il 19esimo congresso del Partito Comunista Cinese. Come è stato riportato da tutti i media, il Segretario Generale Xi Jinping ha rafforzato la sua posizione, inserendo il suo nome nella Costituzione del Partito e – apparentemente – riempiendo gli organi dirigenti di alleati. La questione del potere personale non è però l’unica questione, anzi! La “nuova era” sancita dal congresso porta con sé importanti novità sul piano economico e sociale, di cui comincerò a trattare settimana prossima.

Il nuovo Mao? Neanche per sogno

L’idea che la Cina stia tornando al potere assoluto di una sola persona, assomiglia più all’incubo di alcuni occidentali che alla realtà dei fatti. Chiaramente Xi Jinping ha centralizzato nelle sue mani molti più poteri rispetto al predecessore Hu Jintao – che era invece conforme alla “direzione collettiva”.

La Costituzione del PCC recita ora che il Partito assume come ideologia guida: “il Marxismo-Leninismo, il Pensiero di Mao Zedong, la Teoria di Deng Xiaoping, l’importante pensiero delle Tre Rappresentanze, la Visione Scientifica dello Sviluppo e il Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era”. L’aggiunta del nome di Xi nella Costituzione del PCC ha prodotto un coro globale per cui Xi sarebbe il leader più potente dai tempi di Mao, se non addirittura come Mao. L’idea del “nuovo Mao” non è però da prendere sul serio. Mao e Deng sono stati leader in grado di rivoltare il Paese a loro piacimento, al di fuori delle strutture del Partito, contro le strutture del Partito. Basta ricordare che Mao lanciò la Rivoluzione Culturale quando non aveva nessuna carica. Basta pensare che durante il famoso “viaggio a sud” di Deng che rilanciato le riforme di mercato all’inizio degli anni ’90, egli ricopriva l’unica carica di Presidente dell’Associazione degli Scacchisti. Il tipo di potere esercitato dai grandi leader della generazione dei rivoluzionari non può essere paragonato in alcuna maniera a quella dei successori.

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Come già detto, ha invece più senso paragonare Xi agli ultimi segretari. Entrambi i precedenti segretari hanno messo la loro elaborazione teorica nella Costituzione del PCC: Jiang Zemin con le Tre Rappresentanze che aprivano le porte del Partito anche alla borghesia, Hu Jintao con lo Sviluppo Scientifico. Se Hu non ha messo il proprio nome per convinzione nelle direzione collettiva, pare che Jiang non l’abbia messo per mancanza di un adeguato supporto nel Partito. Può essere quindi legittimo considerare Xi più potente di Jiang e Hu. Di sicuro non onnipotente come vorrebbero far passare molti media.

Dopo Xi? Ancora Xi?

A questo punto bisogna avvertire il lettore: tutte le letture degli equilibri di potere interni al PCC sono interpretazioni di segnali dati all’esterno, le reali dinamiche vengono ricostruite ex post.

La composizione del nuovo Comitato Permanente all’interno del Politburo – di fatto i sette uomini che assumono la responsabilità ultima delle decisioni politiche – sembra ora riportare una salda maggioranza di alleati del Segretario Xi Jinping, soprattutto non appaiono nomi di possibili successori, tutti i nuovi membri sono troppo vicini all’età del pensionamento. Non appaiono i due nomi considerati “papabili”: Chen Min’er, alleato di Xi e segretario del PCC nella turbolenta megalopoli di Chongqing, e Hu Chunhua, segretario della ricca Provincia del Guangdong e apparentemente alleato dell’ex Segretario Hu Jintao.

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Tutto questo è stato interpretato come un segnale che Xi sia pronto a rompere il limite di due mandati, limite obbligatorio per le cariche statali e consuetudinario per il Partito. Xi potrebbe mantenere la carica di Segretario del Partito e passare solo la carica di Presidente della Repubblica. Bisogna però dire tre cose:

  1. rimane del tutto possibile che un successore venga integrato successivamente nel Comitato Ristretto, non fa parte della consuetudine ma sarebbe una rottura della consuetudine minore rispetto a un terzo mandato;
  2. Xi non ha voluto – al contrario di quanto dicevano molte previsioni – infrangere la consuetudine dell’età pensionabile nemmeno per tenere all’interno del massimo organo del Partito Wang Qishan, responsabile dell’anticorruzione e apparentemente strettissimo alleato di Xi;
  3. al contrario di quanto riportano molti media, non è una consuetudine che il Segretario uscente si scelga il successore. Jiang Zemin dovette accettare il rivale Hu Jintao come successore, Hu Jintao dovette accettare Xi Jinping (allora considerato un uomo di mediazione) al posto del suo candidato preferito, Li Keqiang che ora ricopre la carica di Primo Ministro.

In questo articolo ho prestato attenzione nel segnalare le alleanze tra i vari leader cinesi come apparenti. Si tratta di una prudenza che sarebbe d’obbligo, ma spesso viene ignorata dagli osservatori in nome del sensazionalismo. Otto anni fa, durante il diciassettesimo Congresso che sanciva il secondo mandato di Hu Jintao, giravano analisi molto simili sul potere accumulato sulla persona del Segretario-Presidente e sulla fedeltà assoluta della dirigenza al leader. L’impegno reale di Hu sulla direzione collettiva – anche al prezzo di ritardare riforme necessarie, dicono i critici – e i conflitti col Primo Ministro Wen Jiabao sono cose che gli analisti hanno scoperto solo dopo la fine dell’amministrazione Hu-Wen.

Al di là dei giochi di potere in stile “House of Cards”, solo i fatti potranno dirci quale saranno le reali conseguenza del potere di Xi Jinping. Anche perché, per quanto potente, Xi non governa un paese immaginario, governa un Paese percorso da contraddizioni enormi, abitato da un miliardo e mezzo di persone a cui ha promesso una Nuova Era. Di questo, si parlerà la prossima settimana.

https://www.lacittafutura.it/esteri/la-nuova-era-cinese-parte-i-il-potere-di-xi-jinping.html

La Nuova Era cinese – Parte II: la nuova contraddizione

Il PCC aggiorna la contraddizione principale su cui lavorare nei prossimi decenni.

La conclusione del diciannovesimo congresso del Partito Comunista Cinese ha lasciato una marea di commenti sul livello di potere personale raggiunto dal Segretario del PCC, “nucleo” della dirigenza e Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping.

Meno attenzione è stata dedicata al lungo rapporto politico con cui Xi ha aperto i lavori congressuali. Secondo la consuetudine degli ultimi decenni, il rapporto introduttivo è frutto di un lavoro di consenso all’interno del Partito che può durare più di un anno e che riflette la posizione collettiva della dirigenza.

Nel rapporti di Xi, è stato introdotto il concetto di “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, che poi stato fissato anche all’interno della Costituzione del Partito. Ma cos’è, esattaente, la nuova era?

La nuova contraddizione

Il rapporto politico letto da Zhao Ziyang all’inizio del tredicesimo congresso del Partito, nel 1987, riportava che “la contraddizione principale che affrontiamo nella fase attuale sono i bisogni materiali e culturali sempre in crescita del popolo e l’arretratezza della produzione sociale”. La missione storica del PCC diventava quindi quella di modernizzare la produzione, anche aprendo alle forze del mercato, anche aprendo il Partito stesso agli imprenditori che accettavano il ruolo guida del Partito.

Il rapporti di Xi al diciannovesimo congresso ha recitato che “il socialismo con caratteristiche cinesi è entrato in una nuova era, la principale contraddizione della società nel nostro paese si è trasformata in una contraddizione tra l’avanzamento continuo degli stili di vita e lo sviluppo ineguale e inadeguato”.

Se, dalla fine degli anni ’80 , la missione del PCC si traduceva nel mantenere alti livelli di crescita del PIL, ora Xi ha posto dei paletti qualitativi. L’inegualità della crescita riguarda largamente la disuguaglianza tra le province cinesi, tra le aree sviluppate e le aree rurali arretrate, l’inadeguatezza riguarda lo sbilanciamento delle fonti di crescita economica. In particolare, le difficoltà economiche dell’ultimo decennio sono state risolte tramite forti investimenti infrastrutturali – prima il piano di viabilità che ha permesso di mantenere alto tasso di crescita a fronte della crisi economica globale nel 2008-2009, ora il piano “One Belt One Road”. Una soluzione che permette di far crescere il PIL ma non di far crescere in maniera sostenuta i consumi delle famiglie, o meglio “gli stili di vita”.

Il rapporto di Xi ha confermato l’obiettivo di fare della Cina entro il 2020 una “società moderatamente prospera”. In termini pratici, si conferma l’obiettivo posto già nel diciottesimo congresso del 2012 di elevare tutta la popolazione cinese al di sopra della soglia di povertà assoluta. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2012 più di 87 milioni di persone vivevano sotto la soglia di 1,9 dollari al giorno. Secondo quanto riportato a inizio dall’agenzia Xinhua, sono ancora 30 milioni le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, calcolata però come un reddito di 2300 renminbi all’anno, circa un dollaro al giorno.

Scompaiono invece altri indicatori numerici – proclamati nel 2012 – di cosa sia la società moderatamente prospera: non si pone come obiettivo il raddoppiamento dell’economia entro il 2021, non si pone l’obiettivo di raddoppiare il PIL pro capite entro il 2020. Questo può significare molte cose. I più pessimisti pensano che la dirigenza del PCC veda all’orizzonte una crisi finanziaria. I più ottimisti, segnalano che l’eliminazione di obiettivi di crescita precisi porterà a dare più attenzione alla qualità piuttosto che alla quantità. Nel rapporto, in effetti, la “nuova era” moderatamente prospera viene descritta come avente “un’economia più forte, una democrazia più estesa, scienza ed educazione più avanzate”.

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Per il 2035, il rapporto fissa l’obiettivo di “aver costruito un paese socialista moderno che sia forte, prosperoso, democratico, culturalmente avanzato e armonioso”. Per i 15 anni che separano la “fase 1” dalla “fase 2”, Xi ha esposto cinque priorità, che erano già delineate in parte del Tredicesimo Piano Quinquennale:

  1. Ristrutturare la produzione industriale, sgonfiare i settori infrastrutturali che sono attualmente in sovracapacità, riduzione della leva finanziaria del debito privato;
  2. Costruire settori ad alta tecnologia in cui l’innovazione sia di livello mondiale;
  3. Ridurre l’inquinamento, migliorare la protezione ambientale;
  4. Costruire un sistema protezione sociale più forte, inclusa la copertura medica e previdenziale;
  5. Ridurre le disuguaglianze tra le province e tra le aree urbane e rurali.

Infine, l’obiettivo per il 2050, a un secolo dalla Rivoluzione di Mao: far diventare la Cina una nazione con influenza globale pionieristica, con un esercito di caratura mondiale, sempre sottomesso alla guida politica del Partito, che “non dovrà mai cercare l’egemonia”. Va notato che, nell’uso cinese, egemonia significa esattamente il contrario della lezione gramsciana: significa cercare il dominio. Quando il governo cinese contesta la politica statunitense, muove l’accusa di egemonismo.

Il PCC e la legittimità

Quello che colpisce nel rapporto politico di Xi è che l’obiettivo politico del PCC, e quindi dello stato cinese, rimane il progetto di miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari. Questo, sia ben chiaro, non toglie in nessuna maniera il potere acquisito dalle forze capitaliste, non toglie la sacrosanta critica al paternalismo, e non è questo il luogo in cui si può risolvere l’eterna domanda se in Cina vi sia una forma di socialismo o meno.

Da anni molti critici del governo cinese sostengono che si stia spostando la fonte della legittimità dal miglioramento delle condizioni di vita al nazionalismo, alla fine il progetto presentato in questo congresso si basa ancora sull’estrarre dalla povertà chi ancora vive sotto la soglia e sul migliorare la qualità della vita di chi è uscito dalla povertà pagando però il prezzo di una modernizzazione a ritmi forzati, a tratti ritmi folli. Colpisce, ma in realtà non deve stupire.

Non deve stupire perché solo un pesante pregiudizio può far pensare che le contraddizioni che percorrono la società cinese possano essere tenute insieme dalla contesa per alcuni isolotti di dubbia importanza strategica nel Mar Cinese Meridionale. Questo è un pregiudizio che è spesso esplicitato nei confronti dell’élite cinese, considerata semplicemente ipocrita e dedita agli interessi delle classi dominanti e/o di una ristretta cricca autoreferenziale. Lo stesso pregiudizio – in maniera implicita – è spesso rivolto verso lo stesso popolo cinese che non si rivolta secondo i desideri dei critici occidentali. Poco importa se i lavoratori cinesi portano anno dopo anno un livello di conflitto crescente, se passano da protestare per il rispetto delle regole minime dei contratti di lavoro a protestare per più salario e più democrazia nella gestione delle relazioni industriali. Se non protestano chiedendo la fine del governo del PCC, vengono eliminati dal discorso.

Per quanto Xi Jinping possa rafforzare la sua posizione come nucleo del Partito Comunista Cinese, è nella società, nel rapporto tra la società e il Partito, che si gioca la riuscita del suo progetto. Potrebbe sembrare una banalità, eppure troppi critici (ma anche adulatori) tendono a dimenticarsi che – come diceva Marx – è “nel laboratorio segreto della produzione” che prende forma la società.

https://www.lacittafutura.it/esteri/la-nuova-era-cinese-parte-ii-la-nuova-contraddizione.html

Giappone: vince Abe, il guerrafondaio

Il sottoscritto su La Città Futura

Giappone: vince Abe, il guerrafondaio

Arretra il Partito Comunista Giapponese, i giovani votano a destra.

Il capo del governo “liberaldemocratico” Shinzo Abe ha vinto la sua scommessa: la sua coalizione ha confermato la maggioranza alle elezioni anticipate del 22 Ottobre. La coalizione di governo conferma la supermaggioranza dei due terzi tra camera bassa e camera alta, necessaria per modificare la Costituzione. Le elezioni sono state convocate con un anno di anticipo come mossa per sfruttare la divisione dell’opposizione e i risultati economici positivi, prima della riforma delle tasse che si annuncia in senso anti popolare.

La coalizione vincente

Per Shinzo Abe è quindi una vittoria. Il Partito Liberal Democratico (LDP) ha ottenuto il 33,28% (+0,17%) dei voti e 284 seggi sul totale di 465, gli alleati del Komeito il 12,51% (-1,2%) e 29 seggi. Il sistema elettorale misto (un terzo proporzionale, due terzi maggioritario a collegi uninominali) permette di trasformare il 46% dei voti nel 67% dei seggi. Il confronto in termini di seggi con le elezioni precedenti non è significativo, visto che è diminuito il numero totale di parlamentari.

L’LDP è lo storico partito di governo, garante della fedeltà agli Stati Uniti, al governo dagli anni ‘50 a oggi con soli pochi anni di interruzione. Negli ultimi anni si è spostato decisamente verso destra, spingendo per più mercato e per un ritorno ufficiale del Giappone a potenza militare.

Il Komeito è un partito religioso, legato all’organizzazione buddista Soka Gakkai. Ufficialmente il Komeito è un partito pacifista, il giorno dopo le elezioni ha firmato un patto pubblico con l’LDP in cui si impegna ad approfondire il dibattito per riformare la costituzione, in particolare l’Articolo 9 che proibisce la ricostituzione dell’esercito giapponese.

L’opposizione frammentata, arretrano i comunisti

Dopo di anni di sforzi guidati dal Partito Comunista Giapponese (CPJ) per formare un fronte pacifista unito, l’opposizione si è presentata con due coalizioni divise. Il Partito Democratico si è frammentato in due tronconi che sono confluiti nelle due diverse coalizioni.

Uno dei due tronconi ha formato il Partito Democratico Costituzionale (PDC) che è confluito nella Coalizione Pacifista, insieme ai comunisti e al piccolo Partito Social Democratico (SDP). Il PDC ha ottenuto il 19,88% dei voti e 55 seggi. Il CPJ ha ottenuto un notevole 7,9% con 12 seggi, che però rappresenta un arretramento del 3,5% rispetto alle ultime elezioni, quando era riuscito a essere riferimento di tutti i movimenti pacifisti. L’SDP infine ha ottenuto l’1,7% (-0,7%) e due seggi.

L’altro troncone dei democratici ha formato il Partito della Speranza insieme a Yuriko Koike – ex governatrice di Tokyo. Attorno a Koike si è presentata una coalizione di destra. Il Partito della Speranza ha ottenuto il 17,36% e 50 seggi, gli alleati del partito nazionalista Ishin il 6,07% (-9,6%) e 11 seggi. La coalizione di destra ufficialmente è per la revisione della Costituzione, l’avanzamento del Partito della Speranza offre un buon gioco al governo di Abe nel promuovere i suoi progetti guerrafondai. La differenza tra Koike e Abe è il nucleare. Koike si presenta come anti nuclearista anche per l’energia civile, mentre gli ambienti più radicali del governo parlano esplicitamente di armamenti nucleari.

I giovani votano a destra

A queste elezioni l’età del voto è stata abbassata da 20 a 18 anni. Secondo un exit poll del giornale Asahi Shimbun, sono state proprie le coorti più giovani a votare per Shinzo Abe. Gli elettori tra 18 e 19 anni avrebbero votato l’LDP per il 46%, quelli tra 20 e 29 anni, al 47%.

Nello stesso exit poll, le coorti fino ai 40 anni si sono dimostrate in maggioranza favorevoli alla revisione dell’Articolo 9 e alla politica economica di Abe, con maggioranze attorno al 55%. Le coorti più vecchie, invece, si attestano sul 50-50%.

I compiti dei comunisti

Dopo le elezioni e l’arretramento elettorale, il Comitato Esecutivo del CPJ ha indicato due obiettivi di lavoro:

  1. Mettere in pratica la risoluzione del 27esimo Congresso del Partito per organizzare “incontri di discussione del programma del CPJ e il futuro del paese” in ogni angolo del paese;
  2. Lavorare al tesseramento e alla diffusione del giornale del partito (Akahata), per non dover ripetere la situazione di queste elezioni affrontate con meno iscritti e meno diffusione del giornale rispetto alle precedenti elezioni del 2014

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La linea comica: Abravanel e la meritocrazia cinese

Abravanel riciccia le tesi di Daniel Bell sulla Cina.

La meritocrazia cinese
tra Confucio e il comunismo

Dopo Mao si è tornati a selezionare con criterio i «mandarini», per contrastare corruzione e nepotismo, che permangono. Ma i risultati sono buoni

Tra le altre cose divertenti:
“Ma, se la nostra democrazia non può copiare la meritocrazia politica cinese nella selezione dei politici, può farlo nella selezione dei dirigenti della pubblica amministrazione (Pa). Mentre in Cina i politici sono de facto i dirigenti della Pa perché non esiste un parlamento, da noi si è fatto il contrario, «politicizzando» i dirigenti della Pa.”
Qualcuno dovrebbe spiegare ad Abravanel che esiste un parlamento cinese, l’Assemblea Nazionale del Popolo, che ha compiti diversi rispetto a un parlamento di un paese liberaldemocratico ma esiste.
Oppure potremmo continuare a goderci lo spettacolo di un sostenitore del “merito” che parla a casaccio di un paese di cui evidentemente non sa nulla.