Congresso del PCC: Xi prende tutto.

Mio piccolo intervento sul congresso del Partito Comunista Cinese scritto per Youtrend.

L’account twitter satirico @relevantorgans ieri scriveva: “Potete smettere di lamentarvi, amici giornalisti occidentali. La scorsa settimana non vi lamentavate per la mancanza di suspense? #PerchèXiJinpingèinritardo?”

La mappa elettorale della Cina. LOL

Il Congresso – E il ritardo di un’ora con cui il neo segretario Xi Jinping si è presentato ai giornalisti è stato l’unico momento di suspensedella settimana in cui si è svolto il 18esimo Congresso del Partito Comunista Cinese. Xi Jinping è stato eletto Segretario Generale e a marzo succederà a Hu Jintao anche come Presidente della Repubblica. L’unica mossa inaspettata è stata l’ascesa immediata di Xi anche alla presidenza della Commissione Militare Centrale. Il mandato di Hu sarebbe scaduto tra un anno e molti degli osservatori erano pronti a giurare che avrebbe usato quest’anno d’interregno per consolidare le sue posizioni all’interno del partito. In ogni caso, dopo aver opportunamente eseguito un turnover ai massimi gradi dell’Esercito Popolare di Liberazione, Hu ha ceduto il passo a Xi.

Le voci circolate nelle settimane precedenti al congresso, secondo cui il Partito avrebbeabbandonato Mao come riferimento teorico, sono state smentite. Nello statuto del PCC sono stati mantenuti i riferimenti alle teorie di Marx, Lenin, Mao Zedong, Deng Xiaoping e Jiang Zemin, ed è stato aggiunto il lascito teorico del decennio di Hu: la prospettiva scientifica sullo sviluppo, ovvero la necessità di pianificare uno sviluppo che metta insieme la pace sociale, la crescita sostenibile ed il welfare state.

Un Comitato Permanente anziano – Oltre a eleggere il nuovo Segretario, il Congresso ha eletto anche gli altri organi del Partito, tra cui il Comitato Permanente dell’Ufficio Politico che racchiude i 7 (non più 9) leader cinesi più importanti. Oltre a Xi Jinping entrano a far parte del Comitato Li Keqiang (futuro primo ministro), Liu Yunshan, Zhang Gaoli, Yu Zhengsheng, Wang Qishan eZhang Dejiang. La caratteristica principale di questo nuovo Comitato è la sua anzianità: solo Xi e Li sono nati dopo il 1952, gli altri verranno pensionati alla fine di questo mandato, nel 2017.

Il caso Bo Xilai, il potente capo della megalopoli di Chongqing, espulso dal partito e ora sotto processo per corruzione, ha sicuramente modificato il volto del nuovo Comitato Permanente, ma non come prevedevano molti osservatori stranieri. Rimane fuori Wang Yang, segretario del Partito nella ricchissima regione del Guangdong, considerato il contraltare a Bo. Mentre Bo riesumava le mobilitazioni maoiste e subordinava l’impresa private alla proprietà statale, Wang adottava stili comunicativi occidentali e promuoveva l’iniziativa privata. Ad approfittare scandalo è stato però Zhang Dejiang, nominato capo del Partito a Chongqing dopo la caduta di Bo e ora asceso ai massimi vertici.

Le fazioni – Il 18esimo Congresso sembra marcare una vittoria netta per l’ex presidente Jiang Zemin e per la sua cricca di Shanghai. Il segno distintivo di questa fazione è aver fatto carriera all’ombra di Jiang amministrando le regioni costiere sviluppate. Il presidente uscente Hu Jintao sembra invece in affanno, solo 3 dei 7 membri  (tra cui il più fedele sarebbe Li Keqiang) sono in qualche maniera riconducibili alla fazione dei tuanpai, i funzionari che hanno fatto carriera all’interno delle strutture del Partito a partire della Lega della Gioventù.

Quello su cui tuanpai e figliocci di Jiang sono d’accordo è la conservazione del potere del Partito, pur riconoscendo a parole la necessità di riforme politiche, esu questo punto non sembrano esserci grosse novità all’orizzonte. Solamente Wang Qishan è dato con un profiloriformista, resta da capire se questo profilo si possa declinare nella pratica o se resterà materia da retorica, come già accaduto col premier uscente Wen Jiabao.

Sulle politiche economiche invece la differenza appare più evidente. Il protagonismo mostrato da Jiang Zemin negli ultimi tempi promuove l’approfondimento delle riforme di mercato, mentre la gestione di Hu Jintao ha spinto sul mantenimento in mano statale delle leve decisive dell’economia e su quelle che la stampa internazionale (che non ha mai fatto mistero di preferire Jiang, sotto questo punto di vista) ha definito riforme populiste come la mutua sanitaria rurale o la legge sul lavoro entrata in vigore nel 2008.

Non bisogna però farsi prendere dalla fretta di incasellare la nuova dirigenza in correnti rigide, perché la situazione reale è molto più fluida. Alcuni degli esponenti di spicco del gruppo di Shanghai, come Zhang Dejiang, hanno sempre mostrato più di un occhio di favore per le imprese statali mentre alcuni tuanpai hanno gestito grandi liberalizzazioni. Per quanto di enorme importanza, il potere in Cina non passa solo per il Comitato Permanente: contano anche i legami familiari e quelli nati nelle università d’élite come la Qinghua. Conta, soprattutto, l’abilità nel fare filotto, accumulare cariche nel Partito, nell’esercito e nello stato, assicurandosi che i propri sottoposti non remino contro. Xi Jinping, sulle cui opzioni politiche ben pochi hanno le idee chiare, ora ha il compito di trovare un equilibrio e governarlo per cinque anni, fino a quando sarà costretto al ricambio generazionale nel 19esimo Congresso.

Un voto tra i grandi vecchi della Cina per decidere il congresso?

Da prendere con le dovute molle, come tutte le voci provenienti da fonti interne al Partito Comunista Cinese. Comunque il pezzo della Reuters è interessante. Per farla brevissime, sostiene che Jiang Zemin, Li Peng e altri grandi vecchi della Cina (tutta gente che in longevità politica se la gioca con Andreotti) avrebbero condotto delle votazioni interne per decidere chi sarebbe dovuto finire nel Comitato Permanente del Politburo. Nello specifico, il voto sarebbe stato fatale a Wang Yang e alla corrente “riformista”.