Il PD punta alla crisi commerciale

[…]il dna politico-economico dei cosiddetti democratici appare ormai definitivamente strutturato su una linea di indirizzo votata alla deflazione, alla più violenta ristrutturazione e soprattutto al malcelato auspicio di una crisi commerciale e finanziaria quale fattore di “disciplina dei lavoratori”.

[…]

Dunque io sostengo che i democratici puntano dritti alla crisi commerciale. Per afferrare questo passaggio occorre in primo luogo riprendere dimestichezza con il concetto. Questa è infatti un’epoca in cui un eminente editorialista come Valentino Parlato sembra a tal punto generalizzare l’ipotesi del “crollo economico” da arrivare erroneamente ad escluderla del tutto. Ed è un’epoca in cui economisti stanchi e distratti si spingono a dichiarare che, se ci si trova nell’area euro, in fondo della bilancia commerciale ci si può disinteressare. Queste sono posizioni sbagliate e pericolose, soprattutto per noi italiani. Dovrebbe esser noto, infatti, che il nostro paese, assieme a tutti quelli del Sud Europa, rappresenta l’anello debole della catena dell’euro. I dati segnalano in proposito che la politica di deflazione dei costi per unità di prodotto e del deficit pubblico perseguita in questi anni non è stata affatto in grado di compensare la scarsa dinamica della produttività nazionale e di arrestare quindi la lunga fase di deterioramento della bilancia commerciale italiana.

[…]

Come pensano “i democratici” di gestire una dinamica così pericolosa? Ebbene, mi pare chiaro che essi non intendono assolutamente abbandonare l’attuale, radicato indirizzo di politica deflazionista. L’orientamento resta cioè quello di Ciampi e dei suoi boys , e potrà al limite soltanto rafforzarsi con l’esplicito riconoscimento che le ristrutturazioni conseguenti alla deflazione faranno tabula rasa di gran parte della struttura produttiva italiana, e che i superstiti diverranno ancor più di oggi mere appendici del grande capitale europeo. Mario Draghi non fa mistero di considerare questa come una prospettiva addirittura auspicabile per il nostro paese. Ma c’è chi va persino oltre. La stessa ipotesi di crisi di bilancia dei pagamenti potrebbe infatti rivelarsi funzionale alla piena, definitiva attuazione della politica deflattiva. In fondo, per rimettere i conti esteri in ordine “basterebbe” un crollo secco dei salari per unità di prodotto nell’ordine del 15%. E non sono in pochi ad augurarsi che una débacle sindacale di tali proporzioni possa essere ottenuta proprio a seguito di una crisi di fiducia sulla capacità dell’Italia di mantenere l’equilibrio commerciale, con conseguente vendita in massa di titoli nazionali sul mercato europeo (Mario Monti è tra coloro che si esprimono in termini più netti, in proposito). Ricordiamo del resto cosa accadde nel ’92. Ai sindacati venne imputata la responsabilità dell’attacco valutario alla lira e la conseguenza fu il secondo più grande arretramento del movimento dei lavoratori dal dopoguerra, dopo il tracollo del 1980. Ebbene, a distanza di un quindicennio pare che la Storia stia facendo di tutto per ripetersi.

Dunque, è inutile nasconderlo: la deflazione e la crisi quale fattore disciplinante risultano ormai impresse nel dna dei democratici. […] è evidente che una svolta a colpi di slogan buonisti nell’indirizzo economico del partito che egli si appresta a dirigere è una ipotesi ridicola, fuori dal mondo. Spetterebbe dunque alla sinistra organizzarsi per tentare di imporre una svolta, per fissare cioè una precisa linea di demarcazione al di là della quale ci si dovrebbe subito chiamar fuori da qualsiasi ipotesi di governo, lasciando agli altri – destri, democratici o miscelati che siano – la responsabilità di proseguire lungo il nefasto sentiero della deflazione. Questa linea andrebbe tracciata intorno alla seguente evidenza tecnica: soltanto una crisi economico-politica può condurci ad un tasso di deflazione dei costi unitari e del deficit pubblico talmente accelerato da compensare la nostra bassa produttività e da bloccare quindi l’espansione del nostro deficit commerciale. Il che, detto in parole povere, si traduce così: i cosiddetti democratici puntano nuovamente alla gestione di una crisi per auto-legittimarsi, disciplinare i sindacati e dare il colpo di grazia definitivo al movimento dei lavoratori.

Abbiamo dunque tutte le evidenze che ci servono per assegnare ai democratici un pesantissimo capo d’accusa. Solo in questo modo, a mio avviso, potrebbero crearsi i presupposti per una reale battaglia egemonica su una diversa modalità di gestione del debito pubblico, sull’esigenza di un pavimento alla deflazione dei salari unitari, e su un intervento statale negli assetti proprietari teso a recuperare un capitale nazionale polverizzato e in via di estinzione. Solo in questo modo potremmo cioè spingere la barra del dibattito politico su una nostra linea di demarcazione. Ma possiamo mai parlare di “linea di demarcazione” della sinistra fino a quando non facciamo chiarezza al nostro interno? […] Confesso di nutrire qualche dubbio.

 Emiliano Brancaccio – Il PD punta alla crisi commerciale. La sinistra ha una “exit-strategy”?
Luglio 2007

11 tesi sulla sinistra e le europee.

Premessa: che attorno alla cosiddetta lista Tsipras si stiano facendo gli stessi errori che caratterizzarono Cambiare Si Può e Rivoluzione Civile poco più di un anno fa lo sanno anche i sassi. I sassi che si interessano di politica, cioè il 5% della popolazione italiana, a dir tanto.

Il senso di deja-vù è fortissimo. Dopo le elezioni Angelo D’Orsi ha prodotto una brillante analisi della sconfitta delle sinistre basandosi su Machiavelli.

L’idea del post che segue è provare a fare la stessa analisi prima che il danno sia fatto.

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1. Non si sconfigge l’avversario diretto ignorandolo, o usando contro di lui il fioretto.

Innanzitutto bisognerebbe capire chi sia l’avversario diretto in questa competizione. Se l’avversario diretto è l’Unione Europea austeritaria e liberista, l’avversario diretto non può che essere la grande coalizione che di fatto la regge da un ventennio: il Partito Popolare Europeo e il Partito Socialista Europeo. Qualcuno a sinistra contesta l’esistenza di questa grande coalizione europea citando i pezzi eccentrici di socialdemocrazia europea. Dopo la svolta social-liberista di Hollande in Francia e l’accordo di governo in Germania tra Merkel e socialdemocratici (accordo in cui, dicono i maligni, sarebbe compresa l’ascesa di Shultz alla Commissione Europea) penso che si possano mettere da parte questi scrupoli. Pensare di presentarsi alle elezioni con una lista che guarda di qua e di la è un po’ peggio che usare il fioretto con l’avversario, è abbracciarlo.

2. Mai sottovalutare i contendenti

Nonostante una copertura mediatica assolutamente ostile, il Movimento di Grillo è dato dai sondaggi stabilmente sopra il 20%. Le destre si stanno riorganizzando su posizioni euro-scettiche (almeno nominalmente). Il campo di chi critica l’Europa a queste elezioni sarà affollato. Lo stesso centrosinistra, per quanto sia probabile che perda ancora voti, si è sempre dimostrato in grado di attirare voti dell’ultimo minuto attraverso la sirena del voto utile. In tutto questo, alcuni dei promotori della lista Tsipras sembrano convinti che superare la soglia di sbarramento del 4% sia una passeggiata. ‘nuff said.

3. In una competizione ci si deve differenziare

In cosa si differenzia la lista TsiprasPer il non avere politici di professione a capo della baracca? Non è il marchio di fabbrica del 5 Stelle, quello? Per l’europeismo critico degli appelli intellettuali? La stessa linea “più Europa meno austerità” la stanno assumendo Napolitano e Renzi.
Occore che questo progetto radicalizzi velocemente la propria proposta politica, e che questa radicalizzazione non finisca come quella di Ingroia, rimangiata a pochi giorni dalle elezioni in nome di potrei fare il ministro di Bersani.

4. Vince chi include non chi esclude, chi allarga non chi si chiude

Ed è per questo che è giusto, nonostante mi facciano incazzare come una biscia, includere i rappresentanti della cosiddetta società civile. Però l’inclusività deve essere riservata soprattutto a quello che si muove nella società. Se, per esempio, nella società si muove un sentimento critico nei confronti dell’euro, bisogna provare a includerlo, pena che quel sentimento si rivolga alla Lega Nord.

5. La televisione rimane il primo mezzo di formazione delle opinioni della cittadinanza

Certo, l’handicap di essere invitati in tv col contagocce è difficile da contrastare. Bisogna però massimalizzare quel poco spazio che ci è dato. Non è difficile prevedere che, come nella campagna elettorale di Ingroia, in tv ci chiederanno come mai siamo così interessati a far perdere il centrosinistra e altre cose intelligenti di questi tipo. Non ci si può far incastrare in questo frame comunicativo, bisogna romperlo, ma per romperlo serve quella differenziazione di cui al punto 3 e quella cattiveria di cui al punto 1.

La politica si fa dappertutto

Machiavelli diceva che le milizie mercenarie sono il peggiore degli eserciti, sono le milizie volontarie che vincono le lunghe guerre. Le milizie della sinistra sono i militanti. I militanti della sinistra stanno in parte nei partiti, in parte nelle associazioni e nei movimenti. Demoralizzarli con discorsi anti-partitisti è pericoloso per tutti.
Inoltre, le elezioni hanno questa caratteristica di essere fatte tanto nelle grandi città quanto nella provincia. Se il percorso politico prevede alcune assemblee tra i soliti noti a Milano, Roma e poco altro, il risultato non può essere altro che farla percepire come un’imposizione ai militanti delle periferie. Che si incazzeranno e non faranno campagna elettorale.
7.  Se ci si presenta come “nuovi”, occorre esserlo davvero (o almeno sembrarlo).

Dice che per essere nuovi non bisogna mettere davanti i soliti partiti della sinistra. Ma, fuori dal mondo fatato delle discussioni su internet, neanche gli intellettuali che hanno fondato Lotta Continua nel ’69 sono particolarmente nuovi.
La verità è che, per colpa un po’ di tutti, facce nuove da mandare avanti non se ne hanno, non le hanno i partiti e non le ha lo società civile. Escluso quindi di poter candidare gente raccolta a caso purchè nuova, occorrerebbe rinnovare le modalità in cui si arriva alle elezioni, ma tra appelli degli intellettuali, scazzi su internet e assemblee nei teatri romani, non ci siamo neanche qui. Cosa si è in tempo a fare? Si è in tempo a non adottare la classica retorica europeista di sinistra, ormai decisamente superata dai fatti. Più Europa oggi è sentito come uno slogan fuori dal mondo, figuriamoci fare campagna per gli Stati Uniti D’Europa…
E, a proposito della differenziazione di cui al punto 3, Renzi e Grillo riescono, nel loro campo a farsi passare per nuovi. Noi, invece, sottovalutiamo.

8. La campagna elettorale si fa su temi concreti e in modo semplice

Ecco, il nome di Alexis Tsipras non è un tema concreto. Il nome è una scorciatoia per mettere insieme chi va a fare la campagna elettorale. Quindi, smettiamola di chiamarla lista Tsipras. Personalizzare la campagne elettorale attorno a Tsipras significa inoltre darsi la zappa sui piedi mettendosi in un meccanismo di elezioni presidenziale e favorendo quindi il derby tra socialisti e popolari.
Evitiamo di inerpicarci nei volantini in calcoli sugli effetti del Fiscal Compact. Evitiamo di andare in giro a dire di votarci perchè siamo stati bravi e ci siamo uniti. La gente, giustamente, risponde che con l’unità della sinistra non si mangia.
Parliamo di condizioni materiali di lavoro e di disoccupazione, di come creare lavoro, di come rimettere in sesto le scuole. Certo, sono temi classici, non nuovi, ma sono stati abbandonati troppo spesso. E visto che si tratta di elezioni europee proviamo a dire anche che non permetteremo che le condizioni di vita materiali vengano peggiorate perchè c’è lo chiede l’Europa.

9. In Italia la destra è forte

Il mondo progressista è caduto dalle nuvole quando è venuto fuori che la nuova legge elettorale permetterebbe a Berlusconi, con le debite alleanze, di vincere al primo turno. Ben svegliati.
La destra italiana è oggi un po’ più debole di qualche anno fa, ma continua a rappresentare un coagulo di interessi materiali e di incarognimento ideologico difficile da sciogliere. L’avventura dei forconi ha dimostrato che l’asse Forza Italia-Lega Nord non ha più il monopolio su questo coagulo, ma anche che è ancora largamente maggioritario.
Si può ben scommettere che Berlusconi tirerà fuori qualche coniglio dal cilindro nell’ultima settimana di campagna. L’ICI, l’IMU, l’euro, quel che sarà, il nodo centrale è che Berlusconi ha capito che esiste un elettorato che mette il naso fuori dal suo guscio solo negli ultimi giorni prima delle elezioni e che viene smosso da messaggi chiari e semplici.

10. La sinistra è debole

E quanto di cui al punto 9 la sinistra non l’ha ancora capito, puntualmente commenta le sparate di Berlusconi (e ora di Grillo) con un senso di superiorità che non fa altro che spingere queste persone nelle braccia dell’avversario.
La sinistra è debole perchè ha autodistrutto il suo radicamento sociale, ha autodistrutto le sue organizzazioni, ha rinnegato le sue idee e ha favorito tutti i processi che hanno disgregato i suoi soggetti sociali di riferimento. Che adesso odiano la sinistra (anche qui, sia radical che moderata).
Tre mesi di campagna elettorale non sono abbastanza per rimediare a tutto questo, ma sono quantomeno il periodo in cui più cittadini sono disposti ad ascoltare i discorsi dei politici, il periodo in cui è più facile far ascoltare un discorso di diversità rispetto a quello che sono stati gli ultimi vent’anni. E attenzione, un discorso, testimoniare nella pratica è un discorso di ben più lungo respiro.

11. Che fare?

Pensare di ricostruire un soggetto politico della sinistra attraverso una competizione elettorale è lo stesso errore fatto dall’Arcobaleno nel 2008, da Sinistra e Libertà e dalla Federazione della Sinistra nel 2009, da Cambiare si Può e da Rivoluzione Civile nel 2012/2013. Le elezioni sono elezioni, si tratta di provare ad eleggere alcuni rappresentanti in un parlamento dai poteri limitati, si tratta di dare un segnale di solidarietà alla Grecia e agli altri paesi della periferia europea attraverso la candidatura di Tsipras.
Se andranno male non sarà stata l’ultima occasione, la storia va avanti e si sono trovate nuove occasioni quando la sinistra era composta da poche migliaia di persone in galera, in clandestinità o in esilio.
Se andranno bene, se si eleggerà qualcuno, potrà essere un passo avanti. Chi cercheremo di far eleggere sarà un pur stimabile professore o un rappresentante di lotte? Sarà impegnato nella difesa e nella promozione degli interessi delle classi popolari?

Machiavelli concludeva Il Principe incitando i Medici a seguirne i consigli per unire l’Italia contro il barbaro dominio straniero. Ora si tratta di liberarsi dal barbro dominio del capitale. 

The problem with China Gini coefficient statistics

Twofish's Blog

It’s interesting how the media moves from traffic accident to traffic accident. Last years story was on how China was getting polarized between rich and poor and how rural unrest was going to bring down the party. You don’t see those stories any more. The problem with news stories is that they start with a general framework and then try to fit information into that framework. So the framework you start with is the old Marxist idea of class revolution, and then evidence is fit within that framework.

Here is a paper that got me thinking….

http://uschinalawsociety.org/symposium/papers/postconference/pdf/Yasheng.Huang.eng.pdf

Here is a revealing paragraph….

Visitors to China and India often report nearly opposite impressions of the two nations. India assaults one’s senses. People living in open squalors, the lack of sanitary facilities, and massive and sprawling slums in metropolises such as Mumbai and New Delhi easily give rise to the impression that…

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Utopie Letali/La Società Armoniosa

Alcuni tra i miei amici veg/vegan si sono molto stupiti che il Corriere della Sera abbia aperto un blog di cultura vegetariana. Ma come, si chiedono, noi facciamo una scelta di rottura radicale col sistema borghese, andando a contestare non solo l’economia ma anche l’antropocentrismo, e il giornale della borghesia propaganda la nostra scelta?

La sussunzione delle subculture da parte del capitalismo non è un pranzo di gala.

In Utopie Letali Carlo Formenti porta a compimento un percorso di distacco e critica dalle ideologie post moderne della rete. Provenendo da un’Università come quella di Bergamo dove i paradigmi “post” la fanno da padrone, non posso che essere empatico col percorso che porta l’autore a prendere di petto le costruzioni post-moderne che hanno egemonizzato, specie in Italia, le sinistre, sia quella “riformiste” che quelle “radicali”.

Carlo Formenti - Utopie Letali - Jaca Book - pp. 255 - 18 euro.

Carlo Formenti – Utopie Letali – Jaca Book – pp. 255 – 18 euro.

Uno dei punti attorno a cui ruota Utopie Letali è che le nuove ideologie che promettevano una più radicale contestazione del capitalismo hanno finito in realtà per essere sussunte, assorbite e metabolizzate dal sistema borghese molto più facilmente di quanto non abbia fatto il “vecchio” movimento operaio. Seppure sconfitto, quest’ultimo ha impiegato più di un secolo per essere ridotto, quantomeno in Occidente, alla parodia di se stesso o alla stampella del sistema. Le ideologie nate negli anni ’70 e seguenti hanno avuto (o, prevede Formenti, avranno) vita molto più breve. Ovviamente non si tratta di una delegittimazione totale del “nuovo”, il femminismo e l’ambientalismo, sostiene Formenti, hanno colto punti che il movimento operaio tradizionale aveva difficoltà a gestire. Aggiungo io, alcune argomentazioni del “nuovo animalismo” sulla sostenibilità del consumo di carne e sulla necessità di ridurne drasticamente il consumo (se non annullarlo) non possono che essere condivisibili.

Perché queste nuove ideologie sono state così facilmente sussunte? Per Formenti il peccato originale sta nella pretesa degli operaisti per cui la condizione particolare degli anni ’70, in cui le lotte operaie condizionavano lo sviluppo capitalista, fosse estendibile a una legge universale del capitalismo. Da qui, il paradigma della biopolitica avrebbe poi sviluppato l’idea che nell’attuale fase del capitalismo la cooperazione sociale dell’intelletto generale contenga già in embrione i rapporti sociali del comunismo che attendono solo di rompere il guscio di un capitalismo che non organizza e dirige più il lavoro ma si limita a sfruttare. Frantumata così l’analisi di classe, gli individui appartengono a una moltitudine indistinta. Per Formenti il peccato originale quindi non è solo un errore di analisi della fase, è l’assunzione di un paradigma fondamentalmente individualista e quindi permeabile alle sirene del liberalismo borghese.

Quello che accomuna i post-operaisti seguaci di Hardt e Negri, i benecomunisti che predicano una nuova proprietà comune che non sia ne privata ne pubblica, i fan dell’ideologia della rete (tra cui l’epigono italiano, Beppe Grillo) e, aggiungo io, molti dei nuovi animalisti ed ecologisti che si pretendono radicali, è l’idea che il processo di liberazione sia individuale, frutto di una presa di coscienza individuale che si può estendere a chiunque a prescindere dalla sua produzione nella produzione perché le differenze all’interno della produzione sono polverizzate.

Non c’è quindi da stupirsi se gli organi della borghesia accolgono a braccia aperte una filosofia di vita radicale che permette di vivere tranquillamente all’interno del sistema, solo cambiando scaffale del supermercato. O se vecchi liberali moderati come Rodotà (a cui giustamente il libro riconosce comunque un profilo molto più alto di molti altri imbonitori) dialogano con i movimenti radicali dei beni comuni salvo poi ritrovarseli schierati col centrosinistra privatizzatore.

Queste ideologie dilagano in occidente, sostiene Formenti, perché la ristrutturazione capitalista, lungi dall’essere stata guidata dalle lotte delle moltitudini o dai desideri della classe dei lavoratori della conoscenza, ha disgregato sul piano fisico il lavoro, sparpagliato in una miriade di luoghi di produzione diversi. L’unico punto di concentrazione della masse popolari rimane allora la scuola, dalla quale infatti partono periodicamente movimenti di massa, seppure regolarmente perdenti. Ma se il capitalismo frantuma il lavoro disperdendone la coscienza di classe in occidente, l’integrazione del Terzo Mondo nel sistema-mondo capitalista crea le condizione per l’emerge di una nuova classa operaia su dimensioni ancora più grandi di quelle conosciute in Occidente.

Pun Ngai a Shenzhen

Pun Ngai - Cina. La Società Armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti. - Jaca Book - pp. 192 - 20 euro

Pun Ngai – Cina. La Società Armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti. – Jaca Book – pp. 192 – 20 euro

Il lavoro su cui si basa di più Formenti è la raccolta di saggi di Pun Ngai, La Società Armoniosa – Sfruttamento e Resistenza degli Operai Migranti. Il lavoro della ricercatrice di Hong Kong è una miniera di informazioni sulle condizioni di lavoro della manodopera migrante interna nella regione del Guangdong, la regione dove indubbiamente i rapporti di produzione capitalistici sono penetrati più a fondo. In Cina con lavoratori migranti s’intendono quei lavoratori che hanno la residenza nelle campagne ma lavorano in città, specie nelle Zone Economiche Speciali, ovvero aree dove le leggi sul lavoro sono molto più blande del normale e, soprattutto, molto poco applicate da autorità spesso complici. Pun Ngai documenta come questi lavoratori siano sottoposti a ritmi di lavoro pesantissimi, con paghe basse e poco o zero rispetto per i diritti. Ma documenta anche come la seconda generazione di lavoratori migranti non sia rassegnata a subire queste condizioni e organizzi lotte e scioperi durissimi approfittando della concentrazione di un grande numero di lavoratori nei dormitori. Partendo dalla condizione materiale del lavoro, queste possono favorire l’emersione di una nuova coscienza di classe tra le masse cinesi.

Dove il lavoro di Pun Ngai convince di meno, è l’analisi di queste lotte all’interno delle riforme cinesi. Secondo l’autrice, per far passare le riforme dal 1978, lo Stato/Partito cinese avrebbe completamente espulso dal discorso pubblico ogni terminologia e logica marxiana sulla classe, anche il revival di retorica rossa avvenuta negli anni di Hu Jintao non sarebbe altro che una farsa storica. Mi permetto di dissentire da questa visione, se è vero che i rapporti di produzione capitalisti, e con essi l’ideologia liberal-liberista, sono penetrati a fondo nella Cina delle riforme, è anche vero che il discorso di classe in realtà non è mai venuto meno né negli organi ufficiali né nella produzione accademica, semmai è stato affiancato da altri discorsi come quello liberale. La nuova macchina dello Stato/Partito cinese è, in maniera paradossale, pluralistica. Mentre sotto Mao si verificano periodiche purghe di chi non fosse allineato alla linea scelte di volta in volta dal Grande Timoniere, da Deng in poi si sono aperti spazi di libertà di pensiero, una libertà, beninteso, subordinata all’accettazione del sistema a partito unico.

Certo, proprio il sistema dello Stato/Partito pluralista è insieme quello che accoglie le richieste, che interrompe il processo di privatizzazione che lancia la campagna per la sindacalizzazione di massa (per quanto burocratica, con effetti tangibili sulla condizione dei lavoratori) ed è contemporaneamente quello che è complice della violazione delle stesse leggi cinesi, che permette abusi e che mette le sue forze dell’ordine a disposizione della repressione delle lotte. Nel lavoro di Pun Ngai questa contraddizione è assente, viene mostrata una sola faccia della medaglia. La stessa analisi della condizione dei lavoratori migranti evita di rilevare che lo stato non ha spinto tutti i contadini a lasciare la terra per andare in città, tuttaltro! Il controllo delle migrazioni interne è servito anche a far si che più di cento milioni di cinesi trovassero lavoro restando nelle cosiddette industrie rurali, senza andare a ingrossare le fila dei lavoratori urbani. L’effetto più odioso, a tratti criminale, del sistema di registrazione, in altre parole la mancanza di accesso allo stato sociale in città, è stato parzialmente ridotto dall’evoluzione negli anni ’00 e sarà definitivamente archiviato con le riforme annunciate recentemente. Queste ultime, per converso, apriranno un nuovo fronte di lotta sulla questione della proprietà della terra rurale.

Il revival socialista di Hu Jintao, continuato anche da Xi Jinping che con orrore dei commentatori liberali avvia campagne di studio del marxismo e di autocritica, non proviene certo dalla benevolenza del Partito, ma dalla pressione delle lotte sociali che hanno fatto patrimonio dell’ideologia socialista inculcata nel trentennio maoista e l’hanno usata per spingere a migliorare la propria condizione. In questo senso, la formazione di una nuova coscienza di classe in Cina è forse più avanzata di quanto pensi la stessa Pun Ngai.

La Società Armoniosa è un volume prezioso per la mole di lavoro sul campo, ma è opportuno prendere con le molle le conclusioni politiche. All’interno del discorso sulla rinascenza della classe operaia, il lavoro Pun Ngai testimonia comunque un fatto incontestabile: quello che le nuove ideologie vedono come la sparizione del lavoro in massa è stata semplicemente uno spostamento di questi processi (ovviamente in forme nuove) oltre il palmo del naso di Negri e Hardt. E lo stesso fenomeno sorge negli altri paesi in via di sviluppo: invece di sparire la classe operaia ha cambiato colore della pelle.

Che fare?

La risposta di Formenti sembrerebbe ortodossa: riscoprire Marx, Lenin e Gramsci, ritornare a pensare che il capitalismo non si esaurirà da se, ritornare a immaginare una società di transizione per il lento passaggio dal capitalismo al socialismo al comunismo.

Una parte ortodossa nella proposta di Formenti, che è più una proposta per una ricerca che una proposta d’azione immediata, effettivamente esiste: un pensiero realmente alternativo non può che venire da un’alleanza di classe che, oltre alla classe operaia tradizionale, includa i lavoratori immigrati (specialmente quelli che lavorano nella logistica) e la parte di lavoratori della conoscenza che la crisi ha ripiombato al rango di dipendenti sacrificabili tanto quanto gli operai. Su questi ultimi andrà però fatta un’operazione di egemoni date le incrostazioni ideologiche che si sono accumulate nelle loro teste negli ultimi trent’anni.

Le immagini del PSUV ci stanno sempre bene.

Ma chi dovrebbe fare questo lavoro? La risposta di Formenti qua si fa eterodossa. Sul modello delle esperienze sudamericane propone un modello federativo in cui organizzazioni politiche, sindacati, movimenti e associazioni si uniscano per un progetto di transizione oltre al capitalismo. Il progetto rievoca quello del partito sociale formulato da Mimmo Porcaro in Metamorfosi del Partito Politico e adottato dal Partito della Rifondazione Comunista dopo la svolta di Chianciano, per la verità con l’esito paradossale di aver creato una realtà mutualistica che si autonomizza dal PRC invece di aggregare attorno a un centro di gravità.

Il partito del XXI secolo, evidentemente, ce lo dobbiamo ancora inventare, ne Formenti ne i capi della sinistra radicale hanno la soluzione a questo problema. In ogni caso, mi pare che Utopie Letali ponga delle riflessioni utili e che, alla maniera di Lenin, tracci un confine tra quali sono le riflessioni utili e quali sono invece dannose per la causa.

L’alternativa, quindi, è tra stare in queste riflessioni, o stare nel blog vegetariano del Corriere.