Il caso Visetti si espande

Il caso Visetti, partito dalle denunce del corrisponde di AGI-Cina Antonio Talia, pare espandersi oltre al piccolo mondo di chi segue le cose cinese.

Dopo Mazzetta sul suo blog arriva anche l’articolo del Foglio (SIC!) e del Post.

In realtà l’articolo del Post è abbastanza impreciso, non è che girano voci perchè da mesi Talia s’è messo a mettere la pulce nell’orecchio dei colleghi, girano voci perchè si sa da mesi che Visetti copia gli articoli, e spesso lo fa pure male. In più, Talia non sta mettendo in giro voci, sta documentando puntualmente plagi e sciocchezze varie su un blog pubblico.

Visetti e il plagio

Il caso Visetti si espande. Dal giornale che guida le coscienze degli italiani, ancora nessuna risposta.

Mazzetta

Antonio Talia è un giornalista che scrive di Cina dalla Cina. Gli accade una cosa strana, da qualche tempo ha scoperto che Giampaolo Visetti (nell’immagine), corrispondente per La Repubblica da Pechino, saccheggia il suo lavoro e lo ripropone come proprio. La cosa sembra succedere diverse volte e Talia ovviamente se ne risente. Prova a farlo presente a La Repubblica, apre un piccolo blog dove registra i plagi e, per di più, prestando maggiore attenzione a quanto scrive Visetti, si accorge che il corrispondente di Ezio Mauro lavora anche parecchio di fantasia, con risultati a dire il vero imbarazzanti.

La questione è grave, perché non si tratta del solito fenomeno per il quale anche penne note e affermate scrivono spropositi cut & paste senza nemmeno rendersi conto che siano bestialità. Se Visetti legge in radio un articolo di Talia integralmente senza dire che è di Talia, si tratta evidentemente…

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Cosa succede se la Svezia consena Assange agli USA

Che lo torturano.

Mazzetta

La Svezia ha risposto ai rilievi del  Committee against Torture dell’ONU e nella risposta ha illustrato un punto rilevante anche per il caso Assange.

Il governo svedese dice che l’autorità giudiziaria è indipendente e che nessun procuratore svedese ha aperto alcun caso legale per le rendition di due cittadini egiziani, Mohammed Alzery e Ahmed Agiza, poi torturati dai servizi Mubarak. Questo nonostante lo stesso governi comunichi a margine che ai due sono stati riconosciuti risarcimenti per il danno subito.

Ovviamente il governo dice che i procuratori sono indipendenti e che non dipende dall’esecutivo se per qualche motivo i procuratori sono distratti o ritengono che per il codice svedese non sia un reato deportare illegalmente due persone e consegnarle nelle mani di noti torturatori. Il governo svedese nega di aver partecipato a una “rendition”, ma di aver solamente dato corso a una normale espulsione e per questo: niente reati. Anche se diverse…

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Armstrong, Ferrari e Crosetti

La rinuncia di Lance Armstrong a difendersi dalle accuse dell’agenzia americana anti-doping assomiglia ai chiagni e fotti dei democristiani beccati durante tangentopoli: prima patteggiavano, poi si lamentavano che nei processi era impossibile difendersi.

Ancora più imbarazzante è la performance di certi giornalisti che hanno fatto della crociata contro il doping nel ciclismo il loro marchio di fabbrica. Il cronista di Repubblica Maurizio Crosetti, per esempio, si è spesso sentito in dovere di alzare i toni parlando di ciclismo. Commentando la vittoria del kazako Vinokourov alle olimpiadi di Londra si sente libero di apostrofare continuamente il corridore come l’ex dopato e di chiedersi, a proposito dei ritorni alle corse nonostante squalifiche e ossa rotte, quale farmacista gli abbia fornito l’ elisir dell’ eterna giovinezza (non lo passa la mutua). Il tutto all’interno di un articolo troppo impegnato a spiegare quanto sia negativa la vittoria di Vinokourov per perdere anche tempo a fare a cronaca della gara. Insomma un atteggiamento chiaramente provocatorio nei confronti di un corridore già squalificato per doping, che però dovrebbe essere accompagnato da una coerenza di fondo nel trattare questo tema.

Quando invece si tratta di commentare l’ingloriosa fine della carriera di Lance Armstrong, la penna di Crosetti si fa molto più morbida. Il corridore americano, a differenza di quello kazako, non deve essere considerato un mostro dato che, secondo il cronista di Repubblica, non ci sono che deboli prove contro di lui e soprattutto non ci sono test antidoping positivi a suo carico.

Un ragionamento che, però non regge. Secondo Crosetti contro il texano ci sarebbe solo il meccanismo dei pentiti, riferendosi alle confessioni dell’ex compagno di squadra Landys e dell’italiano Simeoni a proposito della comune frequentazione del dottor Ferrari. Il secondo punto sta proprio qua: le accuse ad Armstrong non poggiano solo sulle dichiarazioni dei pentiti, ma anche sulle prove raccolte dalle autorità italiane sui rapporti tra il corridore americano e il noto medico dopatore italiano. Infine, Crosetti dovrebbe ricordarsi che i test antidoping non sono l’unica fonte di prova, Michael Rasmussen venne squalificato dal Tour 2007 e licenziato dalla squadra per essersi allenato in luoghi differenti da quelli comunicati ufficialmente. Un episodio che dovrebbe essere conosciuto da chiunque scriva di ciclismo ad appena 5 anni di distanza.

L’orientalismo di Repubblica.

Perchè se scrivi su Repubblica ti si può abbonare qualsiasi porcheria, incluso l’orientalismo più becero.

Mazzetta

In un orrido pezzo sulle polemiche attorno alla scorta di Gianfranco Fini, oggi Francesco Merlo ha infilato una discreta razzistata, che ci dice molto sulla sua forma mentis:

E significa che non è stato Fini a sistemare i suoi uomini di scorta all’Hotel & Relais I Presidi, uno tra i migliori di Orbetello, ma che in Italia c’è un regolamento sfarzoso al servizio del potere che ha mostrato anche in questo caso la sua solita logica asiatica e orientale, da muslim: cooptazione e sottomissione. 

Difficile essere d’accordo con un pensiero che mette insieme all’ingrosso Asia, Oriente e Muslim (?) e difficile anche condonare l’uso del termine (chissà perché) all’inglese, che assume indubbiamente un tono dispregiativo. Un minestrone chiaramente razzista. Difficile peraltro essere d’accordo con Merlo anche mettendo da parte il razzismo che cola da una frase del genere. Cooptazione, sottomissione e corruzione erano note ai latini e ai cristiani ben prima della…

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Il riequilibrio della Cina

Traduzione di servizio dell’articolo di Ylmaz Akyuz (capo economista del South Centre di Ginevra ed ex direttore e capo economista dell’UNCTAD) sul blog Triple Crisis.

Ora è generalmente condiviso che la Cina non può tornare alla crescita guidata dalle esportazioni di cui ha goduto nel periodo precedente alla crisi finanziaria globale, anche se USA ed Europa tornassero ad una crescita vigorosa. C’è bisogno di espandere il mercato interno rovesciando una tendenza secolare al declino della quota di consumi privati sul PIL, oscillante attorno a un livello quasi da tempo di guerra di circa il 35%. Questo dovrebbe essere fatto non tanto riducendo la propensione delle famiglie al risparmio, quanto aumentando la quota degli introiti delle famiglie sul PIL, che è stata decrescente per almeno due decenni. Queste necessiterebbe un’assennata combinazione di politiche sui salari, sui prezzi agricoli e sulle tassi, e un significativo aumento dei trasferimenti governativo, in particolare verso le famiglie povere rurali, finanziati coi dividendi delle imprese di stato (Confronta Export Dependence and Sustainability of Growth in China).

Una risposta appropriata alle ricadute della crisi del 2008-2009 sarebbe quindi dovuta andare oltre alle politiche macroeconomiche anticicliche e includere riforme basilari per aumentare i redditi delle famiglie. In ogni caso, la Cina ha risposto con massicci investimenti a debito, specialmente in infrastrutture. Politiche a sostegno della domanda immobiliare, inclusi drastici tagli ai tassi di interesse e una crescita senza precedenti dei crediti ipotecari, hanno sostenuto la creazione di una bolla del mercato immobiliare. Tutto questo ha spinto il tasso di investimenti verso il 50% del PIL. I consumi hanno tenuto ma sono stati in ritardo rispetto al PIL sia nel 2009 che nel 2010.

Dopo aver raggiunto la doppia cifra nel 2010, la crescita cinese è diminuita continuamente negli ultimi sei quarti di anni. Il dato ufficiale per il secondo quarto del 2012 è del 7,6%, il più basso dal primo quarto del 2009. Secondo alcune stime indipendenti il rallentamento potrebbe essere ancora più basso, al di sotto dell’obiettivo del 7,5% fissato per il 2012.

A quanto pare sono i fattori interni a pesare di più nel rallentamento della Cina. L’impatto espansivo del pacchetto di stimoli sta svanendo, aprendo la strada a impulsi deflattivi associati con la rapida accumulazione di debito da parte di imprese private e pubbliche e di governi locali. D’altra parte, le restrizioni imposte per frenare le speculazioni immobiliari hanno depresso le costruzioni e i settori collegati. Per quanto l’export sia rallentato nel 2011 dopo l’aumento del 2010 che seguiva i bassissimi livelli del 2009, nel giugno 2012 ha comunque registrato un rispettabile aumento year on year di circa l’11%. In ogni caso, la crescita incerta in America e la doppia recessione europea minacciano seriamente di abbassare considerevolmente l’export durante il resto dell’anno.

Queste forte tendenze al ribasso hanno portato il premier cinese Wen Jiabao a chiedere misure per la crescita più aggressive. I tassi d’interesse sono stati tagliati due volte in un mese, dopo già tre tagli delle riserve obbligatori, e fin dall’inizio dell’anno la Bank of China ha operato grosse iniezioni di liquidità. Sono attesi gli avvii di nuovi progetti industriali e infrastrutturali e anche edilizia pubblica a basso. Anche se questo pacchetto di stimoli difficilmente raggiungerà le dimensioni del primo, le autorità cinesi probabilmente useranno mezzi monetari e fiscali per assicurarsi investimenti sufficienti ed evitare che la crescita vada sotto gli obiettivi stabiliti.

Un’altra volta, gli investimenti avranno il ruolo centrale nello stabilizzare la crescita e la domanda interna. I tagli nei tassi d’investimento difficilmente porteranno troppi aumenti nei consumi provati. Le famiglie hanno un accesso limitato ai crediti delle istituzioni formali: i prestiti al consumo arriva a mala pena al 3% dei crediti totali. Gli investimenti sull’edilizia pubblica potrebbero aiutare a ridurre i risparmi precauzionali ma, in assenza di un significativo aumento nei redditi delle famiglie, questo non sarebbe abbastanza per dare una contropartita adeguata a quello che sembra un rallentamento permanente delle esportazioni.

Le politiche cinesi di risposta alla crisi globale costituiscono senza dubbio un riequilibrio tra le fonti interne ed esterne della domanda, come dimostrato anche dal rapido declino del surplus commerciale. In ogni caso, lasciano la domanda interna squilibrata tra consumi e investimenti. Da un certo punto di vista questo non dovrebbe destare preoccupazioni, è stato argomentato come la Cina sia coinvolta in un’urbanizzazione dal ritmo senza precedenti che richiede grandi investimenti in infrastrutture e abitazioni (confrontaChina Has Massive Firepower to Battle Global Slowdown). D’altra parte, nonostante una quota di investimenti sul PIL molto alta, lo stock di capitale pro capite della Cina rimane basso (confronta Capital controversy). Tutto questo implica ampi spazi di espansione per gli investimenti fino a riempire il vuoto di domanda creato dal rallentamento dell’export.

In ogni caso, la composizione della domanda aggregata importa per la sostenibilità della crescita. Qualora gli investimenti continuassero a crescere ad un passo superiore dei consumi, la capacità di produzione creata diventerebbe sottoutilizzata, deprimendo i ricavi e rendendo l’indebitamento finanziario corrente impagabile. Il pacchetto di stimoli del 2008-2009 ha già lasciato un’eredità di eccesso di capacità produttiva e uno stock relativamente grande di debiti potenzialmente impagabili. Aggiungerne altri potrebbe rendere gli aggiustamenti più severi e dolorosi anche se potrebbero trattenere il rallentamento sul breve periodo. Per la Cina sta quindi diventando più difficile mantenere una crescita stabile e socialmente accettabile senza una grande redistribuzione del reddito: uno sforzo che contiene anche delle sfide che non possono essere ignorate.

Il libro bianco della Cina sulle terre rare

Traduzione di servizio dell’articolo di Nabeel Mancheri su East Asia Forum.

Il 20 giugno 2012 la più alta autorità del governo cinese, il Consiglio di Stato, ha pubblicato il suo primo libro bianco ufficiale sugli elementi terrestri rari. La Cina è il più grande produttore, consumatore ed esportatore di terre rare e controlla il 87% delle forniture globali.

Il libro bianco rivela una serie di politiche governative per l’industria cinese delle terre rare ed alimenta la recente controversie sulle future forniture globali di queste materie prime cruciali, in particolare perchè afferma che la Cina abbia appena il 23% delle terre rare della Terra, rispetto al 36% stimato dagli Stati Uniti.

One of the most important sections of the white paper concerns the ‘current situation of China’s rare earth industry’, and provides a comprehensive view of the industry. According to the report, China has developed a complete rare earth production system from mining to end-product utilisation that can produce over 400 varieties of rare earth products. The report also notes that China produced more than 90 per cent of the world’s total output of rare earth smelting separation products in 2011.

Nel tentativo di affrontare i principali problemi della propria industria delle terre rare, come l’estrazione senza regole ed illegale, il sovrasfruttamento delle risorse, la deteriorazione dell’ambiente e il contrabbando crescente, il governo cinese lo scorso anno ha rafforzato i controlli su questo settore. La Cina continua a implementare un ampio ventaglio di politiche industriali di consolidamento, accelerato negli ultimi anni con la chiusura di centinaia di miniere e l’acquisto di molti piccoli produttori da parte delle maggiori compagnie minerarie del paese. Il libro bianco sulle terre rare introduce obiettivi di sviluppo per l’industria, inclusi standard più restrittivi per la protezione dell’ambiente, vigorosa innovazione tecnologica e passi più decisi per implementare quella che viene chiamata “la strategia dei conglomerati” e l’aggiustamento strutturale dell’industria.

Queste politiche riflettono decisioni ben pianificate collegate direttamente agli obiettivi di lungo termina della Cina di diventare una nazione innovativa entro il 2020 e una potenza scientifica globale entro il 2050. La Cina ha già stabilito una serie di obiettivi di sviluppo a corto, medio e lungo termine per una catena completa delle attività di ricerca e sviluppo. Queste strategie sono state delineate nel decimo piano quinquennale (2001-2005), nell’undicesimo piano quinquennale (2006-2010) e nelle linee guida del piano di sviluppo tecnologico e scientifico nazionale di medio e lungo termine.

Nel 2011 le terre rare hanno assunto una nuova importanza strategica nella corsa cinese per la leadership tecnologica quando, con un importante cambiamento politico, i metalli sono stati formalmente messi nell’ambito del Ministero per l’Industria e le Tecnologie dell’Informazione (MITI). Il MITI è l’architetto delle politiche industriali e di consolidamento ed è inoltre in carica di modellare lo sviluppo di settori emergente che guideranno la domanda di terre rare. In generale, il MITI è responsabile dell’industria mineraria cinese, mentre il Ministero della Terra e delle Risorse è responsabile per l’estrazione e sfruttamento dei minerali e il Ministero del Commercio è responsabile per il commercio dei minerali. Fino ad ora le terre rare erano state considerate parte del settore delle risorse, piazzarle sotto il controllo del MITI permetterà al governo cinese di gestire e coordinare questa industria nella stessa maniera in cui gestisce altri settori industriali di rilievo.

I consumatori di minerali nei paesi industrializzati stanno ora affrontando forniture ridotte e prezzi più alti poichè nel 2011 la Cina ha tagliato le sue quote di esportazione di terre rare del 35%, minacciando di causare una carenza globale dei minerali usati nella fabbricazione di un’ampia gamma di prodotti, inclusi telefoni, macchine ibride e missili guidati.

Nel libro bianco Beijing cerca di giustificare le restrizioni all’esportazione di questi elementi cruciali e di difendersi dal caso sollevato presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio da parte dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e del Giappone. Il paper sostiene che la Cina ha bisogno di trattenere maggiori quantità di terre rare per sostenere i propri settori dell’alta tecnologia e dell’energia pulita. La Cina inoltre continua sostenendo che le restrizioni alle esportazioni rientrano nelle eccezioni legali dell’OMC dato l’obiettivo di protezione ambientale. La protezione ambientale è uno dei temi centrali del libro bianco e, infatti, il rapporto si dilunga nel presentare le politiche cinesi come mirate a garantire la sostenibilità e salubrità dello sviluppo dell’industria delle terre rare.

Il dominio cinese nella fornitura di terre rare è in direttamente collegato alla pianificazione a lungo termine di Beijing. Questi piani di lungo termine promuovono lo sviluppo di un sistema di mercato con investimenti diversificati dalla ricerca di base alla commercializzazione e costruzione dei prezzi in base alla domanda ed offerta dei prodotti. Il paper nota come dopo molti anni di sviluppo, la Cina fondato un sistema di ricerca e sviluppo relativamente completo e abbia fatto da apripista per numerose tecnologie di livello internazionale nell’estrazione, fusione e separazione delle terre.

Il sistema cinese della scienza e della tecnologia lavora su di un modello “dall’alto al basso”, i programmi a direzione statale stimolano gli sviluppi nelle aree strategicamente importanti. Questo tipo di sistema pianificato centralmente ha favorito la ricerca applicata in campi economicamente e strategicamente importanti. Questo ha portato la Cina a diventare leader nella commercializzazione delle tecnologie, dato che le imprese statali promuovono i collegamenti tra gli istituti di ricerca e le imprese private. I conglomerati cinesi sono incoraggiati dal governo a costruire i propri centri per la ricerca e lo sviluppo tecnologico e rilevare gli istituti di ricerca pubblici.

Il successo della Cina nell’industria delle terre rare è, ad ora, il risultato dell’attenta riflessione e considerazione dei più alti livelli delle decisioni politiche e del pragmatismo, della disciplina e dell’assunzione di rischi calcolati da parte dei governi locali e delle compagnie private.

 

Il senso di Repubblica per la Cina (e di Visetti per il lavoro altrui)

Che il noto quotidiano fondato da Scalfari abbia sulla Cina una linea editoriale, per così dire, discutibile è cosa ormai nota.

Da quando Federico Rampini ha preso un volo diretto New York – Beijing e s’è fatto arrivare un titolo da sinologo con i punti accumulati sulla carta della American Airline, Repubblica non è stato solo un giornale con un inviato in Cina, è stato il giornale che forgia l’opinione che si ha in Italia della Cina. Non importa chi vada a Beijing per il Corriere, per La Stampa o per la Rai, è Repubblica che da il La e tutti si devono accodare.

Grazie alle suo corrispondenze dalla Repubblica Popolare Rampini è diventato una star. Ce lo possiamo ricordare mentre sfoggia la sua camicia alla maoista nei programmi di prima serata, tra un bignami della Rivoluzione Culturale e una chiacchera sullo Xinjian. Lo possiamo ritrovare tuttora con una categoria a parte nelle librerie. Sembra uno scherzo e invece è vero, alla Feltrinelli “Federico Rampini” è una categoria a parte nella sezione Geopolitica. Non Kissinger, non Kanna, non Kaplan. Rampini.

Certo, in tutto questo s’è attirato le antipatie di molti sinologi che hanno avuto l’ardire di pensare che passare una vita a studiare la Cina sia più qualificante di essere l’inviato di Repubblica. Sarà che Rampini per una conferenza di due ore prende quello che un docente associato si prende in un anno di lezioni (e anche di più). Sarà che lo stato degli studi cinesi in Italia è tale che i migliori elementi fanno fatica a farsi pagare il rimborso del treno Venezia – Bergamo (e non hanno neppure la carta dei punti). Sarà che alcuni di questi criticoni invidiosi sostengono che Rampini scriva un sacco di baggianate.

Sia come sia, a un certo punto il buon Federico torna negli U.S.A. e passa lo scettro della corrispondenza a Giampaolo Visetti, il quale decide di partire con il botto diffondendo la notizia della censura di Avatar in Cina. Notizia ovviamente falsa, milioni di cinesi hanno visto il film e chiunque vada a farsi un giro per il Parco Nazionale di Zhangjiajie, dove sono state girate molte scene, si ritrova pieno di pubblicità di Avatar e di splendide foto plasticotte in 3ddì con gli alieni blu che saltano fuori. Tipico di un’opera censurata.

Ma l’opera in cui Visetti s’è distinto di più è stata l’ispirarsi al lavoro di altri giornalisti. E non dichiararlo. E distorcerlo anche.

L’articolo Do you speak mandarino? Cinese nuova lingua globale aveva attratto l’attenzione di molte persone. Le tesi parevano ardite. Possibile che degli esperti si sbilanciassero fino a sostenere che nel giro di un secolo cinese ed inglese saranno le due lingue dominanti? La cosa ha suscitato l’interesse di Mirko Tavosanis che, sul suo blog Linguaggio e scrittura, finisce per dimostrare come l’articolo rimastichi ed esageri in maniera scandalistica un articolo del Guardian pubblicato poco tempo prima. A tratti addirittura capovolgendo il senso di quanto detto veramente dagli intervistati. Lo stesso Tavosanis segnala un altro caso, sempre col Guardian ma stavolta legato ad un’azienda di incontri amorosi. Questo nell’autunno 2011.

Nell’estate del 2012, invece, è Antonio Talia ad aprire un blog per denunciare l’uso, parola per parola, di due suoi articoli per RSera. Ovviamente senza che Visetti dichiarasse la citazione. Chiamato in causa, il giornalista di Repubblica s’è difeso sostenendo che fosse una svista tecnica. Alla luce della professionalità dimostrata da Visetti (e dai suoi colleghi di Repubblica), si lascia ai lettori la conclusione su quanto sia credibile questa difesa.

Lo sbarco in libreria non poteva mancare: non sto più nella pelle dall’attesa di poter leggere la storia dell’umile taxista venuto dalla campagna. Chissà se il Guardian ha mai pubblicato qualcosa a proposito.

L’incremento della disuguaglianza regionale in Cina: fatto o artefatto?

Traduzione di servizio dell’articolo di John Gibson su East Asia Forum. Gibson insegna economia all’Università di Waikato e ha co-firmato il working paper  a cui fa riferimento, consultabile qui. La tesi è ardita (ovvero, io lo traduco perchè è stra-interessante, ma non prendo responsabilità!)

C’è una letteratura sempre più numerosa che usa dati cinesi di livello sub-nazionale per misurare le tendenze della disuguaglianza regionale.

Le analisi di questa letteratura spesso ignorano il fatto che il PIL pro capite cinese locale non può essere interpretato nella stessa maniera in cui si aspetterebbero di fare gli economisti mondiali, misurando il valore aggiunto per residente. Per la maggior parte dell’era delle riforme in Cina, è stato riportato il dato del PIL per popolazione residente, che diverge dalla popolazione residente a causa dei migranti non-hukou, ovvero le persone che si muovono dal loro luogo di registrazione. All’avvio delle riforme nel 1978 c’erano poco meno di 5 milioni di migranti non-hukou, ma ora si è arrivato a più di 200 milioni.

All’epoca del censimento del 2000, la provincia del Guangdong aveva una popolazione registrata di 75 milioni di persone ed una popolazione di residenti totali di 86 milioni – il conto dell’hukou sovrastimava il PIL pro capite del 15%. Nelle aree più larghe, come singole contee e grandi città, l’errore è più grande. La città di Shenzhen fornisce un esempio chiaro: mentre la popolazione registrata era appena superiore ad un milione di persone al censimento del 2000, la sua popolazione residente totale era di 7 milioni, facendo sì che il PIL pro capite fosse sovrastimato di almeno il 600% nei dati ufficiali.

Il PIL pro capite è sottostimato nelle provincie interne come l’Henan e il Sichuan dove il deflusso di migranti non-hukou è più alto. Di converso, nelle principali destinazione il PIL pro capite è sovrastimato di una media del 15% (nel 2005). Questo include provincie della costa sud-est come Shanghai, Zhejiang, Fujian e il Guangodng e la conurbazione Beijing-Tianjin. In termini di tassi di crescita, l’uso del PIL per popolazione registrata fa sovrastimare i tassi di crescita di Beijing e Shanghai dal 1990 al 2010 di circa il 2% per anno.

Un altro problema è la grande discontinuità che si è creata quando le provincie sono passato dal conto dell’hukou al conto dei residenti nel riportare il PIL pro capite. C’è anche un conteggio doppio che può arrivare fino a 26 milioni di persone, dato dal fatto che alcune provincie hanno compiuto il passaggio verso il conteggio dei residenti 18 anni prima delle ultime che l’hanno fatto. Quindi durante quel periodo qualcuno può essere stato il denominatore del PIL pro capite per due provincie alla volta, come residente in una e come registrato in un’altra provincia lenta a compiere il passaggio.

Un recente working paper descrive questi errori nei dati sulla popolazione per provincia in Cina. Il paper mostra che l’apparente crescita della disuguaglianza interprovinciale, e il cambiamento della tendenza nella disuguaglianza regionale attorno al 2003, è un artefatto statistico risultante da questi errori. La percezione di una crescente disuguaglianza regionale ha distorto il dibattito pubblico nell’era delle riforme, mentre è vero il contrario. Il cambiamento spurio nella tendenza coincide con le iniziative per ridurre la disuguaglianza regionale che ha visto più di un trilione di yuan (157 miliardi di US$) investiti nello sviluppo di infrastrutture nelle provincie occidentali. La valutazione di questi investimenti è difficile a causa degli errori di misurazione causati dal cambiamento della popolazione al denominatore.

Questi errori impattano sulle tendenze della disuguaglianza inter provinciale. La disuguaglianza del PIL pro capite è stata riportata cresce ad un tasso annuale del 2% nella decade del 1990, quasi il doppio di quanto rivela il conteggio revisionato, basto sui dati del censimento del 2000. Se i calcoli del PIL pro capite non fossero cambiati, l’apparente disuguaglianza inter provinciale sarebbe continuata a crescere velocemente. I dati ufficiali del PIL hanno effettuato il cambio dall’uso della popolazione registrata a quella residente nel 2003. Dato che la disuguaglianza nel PIL per residente è molto inferiore di quella nel PIL per popolazione registrata, questo cambiamento ha automaticamente ridotto la disuguaglianza misurata dal PIL pro capite ufficialmente riportato. Questo da l’impressione di una brusca inversione di rotta nel 2003, senza che ci sia stato alcuno cambiamento nell’economia.

I cambiamenti di percorso della disuguaglianza inter provinciale durante l’era delle riforme hanno avuto 4 fasi, di cui una sola riguarda l’aumento della disuguaglianza. Tra il 1978 e il 1990 la disuguaglianza inter provinciale è declinata quasi continuativamente. Circa un terzo di questo declino è stato rovesciato nei 3 anni successivi, poi un anno di crescita nel 2005 ha posto fine a una decade di cambiamenti minimi nella disuguaglianza. Ma anche con quella crescita, la disuguaglianza era tornata a soli due terzi dei valori di partenza del 1978. La disuguaglianza inter provinciale  è poi diminuita rapidamente dopo il 2005, cosi che nel 2010 tornava al di sotto dei bassi livelli già visti nel 1990. L’unico episodio sostenuto di crescita della disuguaglianza inter provinciale è stato dal 1990 al 1993, solo 3 anni su 3 decenni di era delle riforme in Cina