Sui compagni che vanno a destra

Sinistra e destra e bisogno di autonomia
di Stefano Azzarà su Materialismo Storico
Poiché la sinistra è il PD e il PD e i suoi alleati fanno cose di destra – viene detto -, in realtà destra e sinistra non esistono più e forse non sono mai esistite ma comunque si sono confuse in un’unica, indistinta casta paramafiosa (per i delusi più propensi al lavoro manuale e al ragionamento pratico), oppure in un unico funzionariato politico fiancheggiatore del Grande Capitale Transnazionale e/o Statunitense (per gli intellettuali dotati di più letture).

 

La convergenza con l’iper-ideologia neoliberale che da decenni ci parla della fine delle ideologie dovrebbe destare più di qualche sospetto nei sostenitori di queste tesi. Tuttavia, è comprensibile questa disillusione, soprattutto se mancano gli strumenti per una comprensione storica di ciò che è accaduto negli ultimi decenni e per una comparazione con i secoli precedenti.

 

Ciò che non è gradevole è invece che a questa disillusione segua di solito l’assunzione orgogliosa di atteggiamenti e categorie proprie della destra, quasi a voler segnare con un presunto gesto anticonformista la rottura polemica di quei tabu che caratterizzavano l’antica appartenenza, manifestando in maniera simbolica una presa di distanze.

 

Questo gesto di distinzione al contrario, che nasconde un più profondo bisogno di rassicurazione e serve a elaborare il lutto per il tradimento ideologico subito, non avviene per caso. Discende invece quasi di necessità da quanto sopra, ed è la conseguenza di un’ulteriore sconfitta che sta avvenendo sul terreno del confronto egemonico. Perché in realtà la stessa tesi del superamento di destra e sinistra – tesi che risale alla fine del XIX secolo e che, teorizzata in maniera esplicita nella Rivoluzione coservatrice tedesca a Weimar, si è presentata più volte nel corso del Novecento tornando ogni volta come se fosse chissà quale epocale novità – fa parte del processo di apprendimento che le destre continentali hanno dovuto intraprendere, ormai molto tempo fa, per confrontarsi con quella società di massa che dapprima avevano cercato di ostacolare. Un confronto che alla sinistra ha dovuto e deve contendere simboli, nomi, concetti.
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Grecia: rottura o compromesso

Articolo per il Collettivo Stella Rossa:

Decifrare la trattativa tra l’Unione Europea e il governo di Alexis Tsipras è sempre più difficile. I round di trattativa falliscono uno dopo l’altro e il 30 giugno scadono il “programma di salvataggio”e un ingente prestito del FMI. Nel frattempo la società greca torna a mobilitarsi.

 

[…]

Non possiamo sapere ora se questa vicenda si concluderà con l’accordo o con la rottura. Quello che sappiamo è che tutte le possibilità sono sul tavolo, anche quelle che fino a poco tempo fa venivano pubblicamente escluse perché “anti europeiste”.

La solidarietà con l’unico governo europeo che prova a sfidare il dominio dell’Europa capitalista e anti democratica è obbligatoria. Altrettanto obbligatoria dovrebbe essere l’onestà intellettuale, senza nascondere sotto il tappeto le enormi contraddizioni e difficoltà. Per sostenere la solidarietà col popolo greco serve consapevolezza. Le illusioni, invece, finiscono sempre per produrre delusioni e, di conseguenza, disimpegno.

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Uno finisce di scrivere a mezzogiorno e alle 6 di sera è già successo di tutto. Tsipras ha proposto a Merkel e Hollande di trovare un accordo a livello di capi di stato, non a livello tecnico. Merkel e Hollande hanno rifiutato (grande, compagno Hollande, sei sempre il migliore). I creditori hanno proposto di estendere il bailout di altri 4 mesi con qualche cambiamento (sostanzialmente la stessa cosa fatta a febbraio) e i greci hanno rifiutato.
In tutto questo bisognerebbe veramente evitare di gridare ogni mezz’ora al tradimento definitivo o alla vittoria finale. Non per altro, ci si fa un po’ la figura dei pirla.

Grecia: un accordo a cui non crede nessuno

Traduzione del pezzo di Paul Mason sull’accordo di lunedì 22 tra Grecia e Eurogruppo. 

L’accordo che la Grecia vuole firmare con Bruxelles ha tre parti: bilancio, debito e investimenti pubblici. Nella frenesia delle trattative dell’ultimo minuto, condotte sotto la minaccia di una fuga dalla banche e del controllo dei capitali, i media sono stati ossessionati solo dal bilancio.

Manifestazione filo-europea ad Atene. Via.

Manifestazione filo-europea ad Atene. Via.

Il quotidiano greco Kathimerini ha pubblicato la proposta greca integrale di bilancio per il 2015-2017, preparato dai negoziatori di Syriza con l’obiettivo di raggiungere i surplus di bilancio imposto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Centrale Europa (BCE). Uno dei ministri che ha presentato la proposta me l’ha descritta come “terribile”.

Per evitare altri tagli ai servizi e alle pensioni Syriza si prepara a colpire il mondo degli affari, i consumatori e i lavoratori dipendenti con un misto di tasse più alte e contributi più alti sulle pensioni. Inoltre porterà l’età pensionabile a 67 anni nei prossimi 10 anni, limitando pesantemente gli incentivi al pre pensionamento.

La proposta soddisfa le principali richieste dei creditori, nonostante questo si sta ancora contrattando sulla precisa struttura dell’IVA, sulle pensioni e sulla “riforma del mercato dei prodotti”, che è la maniera in cui l’FMI chiama la sua ossessione per le farmacie e le panetterie.

La proposta ha provocato la rabbia dei conservatori greci che fino a pochi giorni fa chiedevano un accordo, l’indignazione degli elettori di Syriza più di sinistra e la manifestazione di 5000 pensionati comunisti. Ma il problema è più grande.

Tutto ciò che abbiamo visto finora suggerisce che non funzionerà.

I creditori, come mi ha detto uno degli esperti partecipanti alle trattative, “non fanno macroeconomia”. I modelli usati nelle negoziazioni dall’Unione Europea dice che se imponi 8 miliardi di euro di tasse in più a un’economia in recessione, questa si ristringerà al massimo di 8 miliardi di euro, ma potrebbe anche crescere.

L’esperienza dell’austerità greca (e questo progetto di bilancio è semplicemente austerità di sinistra), dimostra però che bisogna considerare gli “effetti moltiplicatori”. Il FMI ha già ammesso che il suo modello è sbagliato e che l’effetto negativo del taglio di un euro potrebbe non essere mezzo euro, più probabilmente sarebbe un euro e mezzo.

La ragione per cui il FMI e l’UE stanno provando a tenere duro su questioni come l’IVA e le panetterie è che sospettano che un passaggio da duri tagli di spesa e un duro aumento redistributivo delle tasse avrà lo stesso risultato generale: l’economia calerà e il debito sarà più alto.

Ma un programma redistributivo è tutto ciò che Syriza può dare ai suoi elettori. I greci sapevano, quando facevano la proposta, che ci sarebbe bisogno di decine di miliardi di ristrutturazione del debito e decine di miliardi di fondi strutturali dall’UE per attutire il colpo.

Ma I creditori stanno resistendo. Quando si tratta del debito, come mi ha detto uno dei partecipanti alle trattative, i creditori “sono in guerra l’uno con l’altro”. Il FMI vuole cancellare dei debiti, la BCE no.

La proposta discussa è di trasferire 27 miliardi di debito greco nei confronti della BCE a un programma chiamato ESM in cui le scadenze sono tra svariati decenni e i tassi di interesse bassi.

Da quello che so, senza un chiaro impegno sul taglio del debito, i greci non possono firmare l’accordo. Alla stessa maniera, sono determinati ad ottenere dalla Commissione Europea un accordo per sbloccare i fondi strutturali per lo sviluppo.

Sono arrivati a Bruxelles preparati a fare un accordo sul bilancio e sul debito, ma pronti ad andarsene innescando un Armageddon finanziario se non dovessero ottenere nulla.

Non è petulanza. Sanno che senza un chiaro cambiamento sul debito e sui fondi strutturali, il programma sulla tassazione non funziona e in ogni caso non riuscirebbero a farlo approvare a Syriza.

La pressione degli elettori di Syriza è forte, ma variabile. I pensionati e il Partito Comunista protesterebbero in maniera forte sulle pensioni e la privatizzazione dei porti.

Ma le giovani generazioni radicalizzate sono più concentrate sulle questioni sociali: vogliono stipendi più alti, lavori più sicuri, il diritto alle unioni civili e la cittadinanza agli immigrati di seconda generazione. Vogliono la polizia epurata dai fascisti e lo stato epurato dai corrotti. Sono anche assuefatti all’idea della imprenditoria start-up, al lavoro autonomo e all’arrangiarsi con vari lavori, non necessariamente in regola.

Credono che l’unico partito che possa portare avanti questo programma di pulizia e modernizzazione sia Syriza.

La reazione della vecchia generazione, dentro e fuori Syriza, sarebbe di andare al default e lottare. La reazione dei più giovani (non importa quanto odino il FMI e la BCE) potrebbe essere di accettare le tasse alte e le scuse dei dirigenti di Syriza e spingerli a fare almeno la rivoluzione sociale minore che hanno promesso. Mandare in galera politici e affaristi corrotti, dopo tutto, non costa niente.

Ma tutto questo è accademia se Yanis Varoufakis non torna da Bruxelles con un accordo che sia accettabile, accettabile anche per se stesso. E senza un taglio del debito, è impossibile fare un accordo accettabile.

Galbraith, la Grecia e la malafede dell’Europa

Oggi parrebbe essere il giorno decisivo per la Grecia (l’ennesimo giorno decisivo, a meno che non diventi decisivo il meeting di sabato…). Fatto sta che la fine di giugno si avvicina e con essa il default sui debiti verso il Fondo Monetario Internazionale, mentre il ritiro di capitali si intensifica e la borghesia greca alza il tiro al grido di “no alla stalinismo in Grecia”.
Nell’attesa di sapere cosa accadrà, una traduzione dell’intervento del noto economista critico James K. Galbraith, apparso originariamente su American Prospect, sulla malafede dell’Europa. Perchè a essere cattivi non sono solo i tedeschi.

Malafede. Perchè un reale taglio del debito greco non è tra le possibilità

I lettori della stampa finanziaria possono essere scusate se pensano che nelle trattative tra Grecia e Europa ci sia un partner inaffidabile, il nuovo governo greco, e un partner responsabile, il fronte comune dei maggiori governi e delle istituzioni dei creditori, intenzionato a perseguire politiche razionali e l’interesse comune europeo.

Il punto di vista di Atene è diverso. L’11 giugno ho assistito a una seduta della commissione parlamentare d’inchiesta sul debito greco con la deposizione di Philippe Legrain, già consigliere dell’allora presidente dell’UE José Manuel Barroso. Legrain è un tecnocrate, un economista e una persona molto riservata. Parlò in maniera tranquilla.

Secondo Lagrein il peccato originale nella faccenda greca è stato commesso nel maggio 2010, quando fu chiaro che il paese era insolvente. All’epoca i funzionari del FMI era convinti che il debito greco dovesse essere ristrutturato e che il taglio non fosse solo necessario ma anche giusto, dato che debitori inaffidabili sono sempre accoppiato a creditori inaffidabili e che i creditori sono parzialmente compensato per il rischio della perdita.

La ristrutturazione non c’è stata. Invece un trio di francesi – al FMI, alla BCE e all’Eliseo, sostenuti da Angela Merkel – decisero di far finta che il problema greco fosse temporaneo e che ci fosse una crisi finanziaria più larga da affrontare e che il più grosso salvataggio della storia non dovesse mirato a salvare la Grecia ma a ridurre l’esposizione delle banche francesi e tedesche verso gli altri stati europei, con la quota maggiore indirizzati ai contribuenti tedeschi.

Perchè il FMI c’è stato, facendo il più grosso prestito della sua storia (32 volte la quota della Grecia) contro i dubbi dei suoi funzionari e le obiezioni di molto membri non europei? Perchè l’allora Managing Director, Dominique Strauss-Kahn, voleva diventare il Presidente della Francia.

Nello stesso momento, la Banca Centrale Europa di Jean-Claude Trichet comprava titoli greci per circa 27 miliardi, alzandone il prezzo. Perchè? Per sostenere i creditori originali, in larga parte banche francesi.

Facendo questo i poteri europei evitarono di imporre perdite alle grandi banche. Con le sue azioni Trichet bloccò la BCE nel rifiuto di accettare perdite sui titoli greci e aggirà, per non dire che ruppe, il mandato legale della BCE.

Uno dei principi di base della finanza è: non si fanno nuovi prestiti a chi è in bancarotta. Di fronte all’insolvenza, si deve ristrutturare il debito. I funzionari del FMI e i membri del board che lo sapevano furono scavalcati. I leader europei si unirono in una grande menzogna: fare finta che il debito greco fosse sostenibile. Nel 2010 i rappresentanti all’FMI di Francia, Germania e Olanda promisero (sulla base della finzione) che le loro banche avrebbero mantenuto i loro debiti greci. Nei fatti, vendettero tutto quello che poterono

Nel 2010 il governo greco avrebbe potuto ristrutturare il suo debito, secondo la legge greca, ma non lo fece. Quando la ristrutturazione avvenne nel 2012, fu secondi i termini dei creditori, cioè con la perdita del 60% del valore dei fondi pensione greci e questo è uno dei principali motivi per cui le pensioni greche sono messe così male oggi.

Nel 2010 la Grecia dovette ingoiare un programma di austerità che sarebbe stato – come promesso da Poul Thomson del board del FMI – “duro, difficile e doloroso”. Anche se il programma conteneva un “aggiustamento fiscale” senza precedenti pari al 16% del PIL, prevedeva anche che la Grecia avrebbe avuto una caduta del PIL di solo il 5%, seguito da una ripresa dall’inizio del 2013. Nel frattempo il rapporto debito/PIL sarebbe dovuto salire 150% nel 2013 per poi scendere. Nei fatti, la diminuzione del PIL greco fu 5 volte più grande e il rapporto debito/PIL è oggi al 180%. E non c’è stata nessuna ripresa.

Venne poi chiesto a Legrain venne chiesta un’opinione sugli economisti che fecero queste previsioni e sugli ufficiali che le diffusero. Su questo punto la testimonianza fu incerta. Fu incompetenza? Panico? Ideologia? Il testimone non lo sapeva. Forse, suggerì, qualcuno di loro “nella loro stupidità” pensò che avrebbe funzionato. In ogni caso “nessuno ha pagato per i propri errori”.

Il signor Thomson continua a prender le decisioni all’FMI che – anche se ora sostiene la necessità di un taglio del debito – continua a chiedere lo stesso insieme di tagli deflazionari che viene ufficialmente chiamato come “riforme”. Tra questi ci sono riduzioni selvagge delle pensioni minime, che arriverebbero a ridurre di un terzo dei pagamenti che sono già di soli 12 euro al giorno.

Nel frattempo, secondo un report della Franfurter Allgemeine Zeitung del 14 giugno, la Commissione Europea si prepara ad alleggerire le richieste di tagli alle pensioni in cambio di tagli alla spesa militare greca? Chi ha affossato questo accordo? Secondo la FAZ, l’FMI. Se all’FMI pensano che sarebbe più far pressione sul governo greco per mettere alla fame il suo popoli, non hanno proprio prestato attenzione. O, più probabilmente, data la chiara divisione e lo scompiglio tra i creditori, il FMI ha deciso che non vuole un accordo e che quindi altre trattative sono inutili.

Mentre il FMI insiste che la Grecia deve soddisfare ogni condizione posta, le cose sono diverse andando verso nord e verso est. Per l’Ucraine, secondo un’affermazione del 12 giugno della signora Lagarde  riportata da ZeroHedege, il FMI “potrebbe prestare all’Ucraina anche se l’Ucraina non può ripagare i propri debiti. Tanti saluti alla sostenibilità del debito e per il principio base per cui non si concedono nuovo prestiti a chi è già in bancarotta.

I lettori americani sono abituati a vedere la Germania, i tedeschi e la cancelliera Angela Merkele e il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble come i cattivi di questa storia, ma questo è una sottostima del ruolo giocato in penombra dai Rasputin di Parigi. E anche di quello dello Svengali di Francoforte, Mario Draghi, che nel momento in cui scrivo minaccia il sistema bancario greco. Minacce che, nei prossimi giorni, potrebbero provocare proprio ciò che Draghi promise di evitare a qualunque costo. [Cioè, la fine dell’Euro]

 

 

Il Papa non è con noi

L’entusiasmo che circonda l’enciclica ecologista di Papa Francesco mi pare ben poco giustificato. Si parla di svolte, di oggettive convergenze con le elaborazioni degli ecologisti e dei movimenti. Mi sembra un segno di superficialità.

Non ho ancora avuto modo di leggere l’enciclica per intero (non che sia in cima alla mia coda di lettura…), ma solo a leggere le prime analisi fatte da chi non ha le fette di salame sopra gli occhi appare chiaro che ci sia poco di che entusiasmarsi.

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Partiamo, però, da un concetto preliminare:

LA CHIESA HA UNA DOTTRINA SOCIALE

La dottrina sociale della Chiesa non se l’è inventata Papa Bergoglio. Se l’è inventata nel 1891 Papa Leone XIII con l’enciclica Rerum Novarum ed è da allora che la Chiesa dice che la dignità umana deve essere conservata anche nella dimensione del salariato, a cui deve essere corrisposto un salario capace di sostenere la famiglia, più altri tipi di preoccupazioni “umanitarie” rispetto allo stato di abbruttimento del lavoratore sotto il capitalismo.

Stupirsi, nell’anno 2015, che il Papa faccia una “critica al capitalismo” è quantomeno fuori tempo massimo. Una minima conoscenza della storia del movimento operaio dovrebbe anche ricordare che la Rerum Novarum fu promulgata per correre ai ripari ed evitare che le masse lavoratrici cattoliche finissero tutte nelle braccia del nascente movimento operaio italiano. Operazione peraltro riuscita. Nei suoi discorsi “anti capitalisti” Bergolgio non fa altro che ripetere la dottrina sociale della Chiesa come avviata da Leone XIII e messa a punto da tutti i papi successivi, inclusi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Se poi vogliamo parlare di coerenza, citofonare alla CISL e chiedere cosa pensano del Jobs Act.

Altro concetto preliminare

ANCHE BENEDETTO XVI ERA “ECOLOGISTA”

L’evidente antipatia per il precedente pontefice (contro cui era facile sparare salve di battute sui suoi trascorsi nella hitlerjugend) non può far dimenticare che anche il Papa tedesco amava proporre omelie sulla salvaguardia del creato dall’avidità umana. Per chi fosse troppo smemorato, la Chiesa ha riunito in unico volume gli interventi di Ratzinger a proposito:

Scoprire ora che anche la Chiesa ha un suo ecologismo è quindi più un peccato di superficialità nel giudicare l’antipatico Papa tedesco piuttosto che un apprezzamento di una supposta svolta del simpatico Papa argentino.
Se poi vogliamo parlare di coerenza, citofonare ai politici cattolici e chiedere cosa pensano dello Sblocca Italia.

Ma veniamo all’enciclica. L’entusiasmo per un Papa che parla di ecologia rischia (eufemismo) di mettere in secondo alcuni punti che invece, fuori dai circoli della sinistra che vaga alla ricerca di punti di riferimento, stanno saltando agli occhi di molti, L’encilica è strutturata per punti e può essere letta qui.

1) Bergoglio ribadisce il creazionismo. Se si dimentica che Dio è creatore si finisce per adorare altre forze (punto 75), e dietro a tutto c’è il piano intelligente di Dio, non il caso o l’evoluzione (punto 77)

2) I gay sono contro l’ecologismo. Al punto 155 Bergoglio ci tiene a precisare che per avere un sano rapporto col creato bisogna avere un sano rapporto col proprio corpo maschile e femminile. I gay evidentemente fanno più danno alla natura della Chevron

3) I diritti delle donne sono contro l’ecologismo. Al punto 120 “Dal momento che tutto è in relazione, non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto”.

4) La ricerca scientifica è contro l’ecologismo. Al punto 136 “D’altro canto, è preoccupante il fatto che alcuni movimenti ecologisti difendano l’integrità dell’ambiente, e con ragione reclamino dei limiti alla ricerca scientifica, mentre a volte non applicano questi medesimi principi alla vita umana. Spesso si giustifica che si oltrepassino tutti i limiti quando si fanno esperimenti con embrioni umani vivi“.

5) Per fare l’ecologismo il terzo mondo deve continuare a fare figli come conigli. Aveva fatto scalpore l’espressione “come conigli” usata da Bergoglio nelle Filippine per dire che forse si potevano fare anche meno di 15 figli per coppia. Fortunatamente al punto 50 viene ribadita la giusta linea: “Invece di risolvere i problemi dei poveri e pensare a un mondo diverso, alcuni si limitano a proporre una riduzione della natalità. Non mancano pressioni internazionali sui Paesi in via di sviluppo che condizionano gli aiuti economici a determinate politiche di “salute riproduttiva”. Però, «se è vero che l’ineguale distribuzione della popolazione e delle risorse disponibili crea ostacoli allo sviluppo e ad un uso sostenibile dell’ambiente, va riconosciuto che la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale»“. Per chiarezza, la citazione fatta da Bergoglio è dal compendio della dottrina sociale della Chiesa.

Certamente, l’ala più conservatrice della Chiesa urlerà che questa è un’enciclica di sinistra, un’enciclica socialista, addirittura. Sarebbe però quantomeno ingenuo cadere nella trappola e pensare che se l’ala più conservatrice della Chiesa lo urla, allora certamente è vero. D’altra parte questo è lo stesso tipo di destra intimamente convinta che Obama sia comunista.

Certamente, Bergoglio offre all’ala più conservatrice della Chiesa degli appigli vistosi, andando a saccheggiare una terminologia che fin’ora era stata patrimonio dei movimenti ecologisti, di sinistra, “no global”. Parla di “debito ecologico”, di nord e sud del mondo, di disuguaglianza tra e dentro le nazioni. Ma Bergoglio non è l’ultimo wannabe intellettuale di una sinistra allo sbando, è il capo di una delle più straordinarie macchine ideologiche del mondo, una macchina che funziona da 2000 anni e che ha dimostrato di poter sussumere al proprio interno tutte le novità strutturali e sovrastrutturali che hanno attraversato questi due millenni di storia. Infatti la struttura dell’enciclica è la dottrina della Chiesa, non i documenti del Foro di Sao Paulo. Tutto ciò che proviene dall’elaborazione dei movimenti (e dall’elaborazione scientifica!) viene filtrato e accettato nella misura in cui è compatibile con la tradizione teologica cattolica. Il resto viene espulso. O trasformato.

Forse chi pensa che il Papa sia all’improvviso saltato “dalla nostra parte” dovrebbe chiedersi se per caso non sia solo l’ultimo in una lunga lista ad essere saltato dalla parte del Papa.

PS: un discorso molto più articolato meriterebbe la componente cattolica delle sinistre latino americane. Si spera che, comunque, si abbia la dignità di riconoscere che in termini di potenza della Chiesa e delle sinistre c’è un abisso tra l’Italia e il Sud America.

Le elezioni in Spagna: è più complesso

A questo articolo sulle elezioni amministrative spagnole ci tengo particolarmente. Non sono particolarmente esperto di cose spagnole, non ho grandi verità da svelare.

Ho visto innumerevoli grandi opinionisti, Sua Santità Saviano in testa, confondere Barcelona en Comú con Podemos, ho visto gente che proclamava la vittoria della sinistra in tutte le maggiori città anche quando arrivava primo il PP, ho visto il Manifesto inventarsi le percentuali per poter dire che Izquierda Unida rimarrà sotto la soglia di sbarramento alle politiche, ho visto gente incapace di guardare le serie storiche dei sondaggi.

Dopo aver visto tutti delirare per una settimana, penso sia importante scrivere qualcosa di basato sulla realtà:

Il caso più clamoroso di vittoria dell’unità popolare è stato quello di Barcellona, seconda città della Spagna, dove la lista Barcelona en Comú ha vinto le elezioni col 25,2% dei voti, battendo Convergencia Y Union (regionalisti di destra, 22,7%).BComú è una lista nata dal movimento Guanyem Barcelona che ha unito una vasta gamma di movimenti popolari, di singoli attivisti e di partiti della sinistra, a partire da IU e dagli ecologisti di Equo. Un processo avviato prima delle elezioni europee del 2014 cui Podemos si è aggregato nei primi mesi del 2015. La candidata Ada Colau(già leader del movimento contro gli sfratti) sarà sicuramente sindaco di Barcellona. La legge elettorale spagnola prevede che il sindaco sia eletto dal consiglio comunale ma che, nel caso non si trovi una maggioranza, sia eletto sindaco il candidato della lista più votata. Barcelona en Comú, con undici seggi su quarantuno, per ottenere la maggioranza dovrebbe ottenere l’appoggio delle altre liste di sinistra o centrosinistra: il PSOE (4 seggi), la Sinistra Repubblicana di Catalogna (indipendentisti di sinistra, 5 seggi) e le Candidature di Unità Popolare (indipendentisti di sinistra radicale, 3 seggi). Non sarebbe certo una coalizione facile, Colau potrebbe però anche decidere di sfruttare il diritto di essere sindaco in quanto candidato della lista più votata. 

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Manifestazione di Marea Ciudadana a Madrid. Via.

Manifestazione di Marea Ciudadana a Madrid. Via.

Dalla stesura ad oggi ci sono stati alcuni sviluppi.

Mentre le trattative per le regioni sono in alto mare, qualcosa s’è mosso sulle municipali.
A Barcellona, BEnComú annuncia che farà un referendum interno per decidere se fare un’alleanze con le altre forze di sinistra (per la cronaca, esiste anche la possibilità tecnica, per quanto remota, che una grande alleanza tra PP, PSOE, Ciudadanos e Convergencia Y Union ottenga la maggioranza a scapito di Ada Colau).

A Madrid invece pare che si vada verso un “appoggio esterno” del PSOE all’unidad popular, con i socialisti che voterebbero la fiducia, per evitare che passi la candidata del PP come più votata, ma non entrerebbero in giunta.

Infine, in Andalusia, regione in cui si avvicina la fine dei due mesi entro i quali va formata la maggioranza, altrimenti si andrà a nuove elezioni, la candidata del PSOE insiste sull’ipotesi di un suo governo di minoranza. Con Podemos, Izquierda Unida e Ciudadanos indisponibili a qualunque operazione politica, l’unico accordo possibile sarebbe quindi quello con il PP per un voto di astensione che permetta la nascita del governo di minoranza.