Woodrow Wilson a Sinferopoli

Il Parlamento di Sinferopoli ha votato a larghissima maggioranza la secessione della Crimea dall’Ucraina. Il referendum popolare confermerà (scrivo mentre arrivano i primi exit poll) a maggioranza altrettanto larga la decisione di cambiare stato.

Era scontato, era inevitabile. Dopo che l’abbattimento di Yanukovich (inetto e corrotto, ma pur sempre il presidente legittimo secondo le leggi ucraine) ha portato al potere a Kiev una coalizione di liberisti e fascisti con l’ossessione della purezza etnica, non era pensabile che una regione come la Crimea  rimanesse a guardare mentre venivano messi fuori legge i partiti di sinistra e/o russofoni, mentre si “invitano” i russi d’ucraina a lasciare il paese. Lasciando i soldi all’Ucraina, ovviamente.

Tyahnybok, leader di Svoboda, il partito nazista che controlla il Ministero della Difesa a Kiev

La Crimea è storicamente russa, si narra che Kruscev prese la decisione di farla passare dalla Repubblica Russa a quella Ucraina (allora ancora repubbliche dell’URSS) dopo una ciuca colossale. Ma lo si narra di tutte le decisioni di Kruscev, il punto è che fu una decisione nell’ottica di uno spostamento interno a uno stato unitario. Dopo la fine dell’URSS la Crimea è rimasta formalmente al nuovo stato ucraino, ma con grandi autonomie e, soprattutto, con decine di migliaia di soldati dell’esercito russo e la flotta strategica russa in loco secondo i trattati bilaterali. Neanche l’altro notorio presidente ubriacone, Eltsin, allentò mai la presa sulla Crimea.

Una situazione lose-lose

I media internazionali stanno dipingendo come grande cattivo della situazione Putin. Il presidente russo sta in realtà subendo una situazione in cui qualsiasi mossa faccia è a perdere.

Durante la crisi dell’Ossezia nel 2008 la Russia (formalmente intitolata a respingere l’aggressione georgiana) era riuscita a usare la forza militare per un tempo brevissimo e a creare poi due territori formalmente autonomi, senza entrare nelle acque turbolente dell’annessione territoriale. La dimostrazione di forza militare di Putin, conclusa dopo il ripristino del bilinguismo russo/ucraino da parte del governo di Kiev, poteva forse avere questo scopo. Ma la Crimea non è un micro territorio del Caucaso dove le frontiere hanno (o quantomeno avevano nel 2008) un significato relativo. La Crimea è un territorio troppo importante come unico sbocco marittimo della Russia, le altre provincie russofone come passaggio di gasdotti e oleodotti, per rimanere nell’indeterminatezza dell’Ossezia.

Se Putin procede con l’annessione territoriale, via plebisciti o manu militari, si infila in un ginepraio diplomatico in cui il suo più grande possibile alleato sulla vicenda, la Cina, non può seguirlo per gli ovvi motivi legati al principio di non ingerenza e ai tanti territori in cui minoranze etniche più o meno riottose puntano all’indipendenza.

Se Putin dovesse cedere, si ritroverebbe con un paese alleato alla NATO ai confini, con milioni di cittadini russi sotto uno stato ostile, con l’apparato industriale dell’est ucraino, fondamentale sub fornitore dell’industria russa, verosimilmente smantellato o reindirizzato a ben altri mercati.

Un principio pericoloso

La maniera in cui il principio di autodeterminazione dei popoli viene evocato a proposito di questa vicenda, è quantomeno curiosa. Il principio elaborato dal Presidente americano Wilson dopo la Prima Guerra Mondiale è abbastanza fumoso per essere piegati ai più vari scopi. Come di definisce un “popolo”? Per etnia, religione, lingua o cos’altro? Quali sono le modalità per autodeterminarsi? Lotta armata, proteste pacifiche, referendum?

Viene invocata l’autodeterminazione del popolo ucraino che non vuole vivere oppresso da Putin ma chi lo fa non considera il popolo crimeo in diritto di autodeterminare l’adesione alla Russia.

Dall’altra parte si proclama appunto la legittimità delle decisioni del Parlamento di Sinferopoli e del referendum popolare, ma non è difficile ricordare che molti di quelli che sostengono questa posizione si sono opposti al riconoscimento del Kosovo indipendente e difficilmente applicherebbero lo stesso principio al Tibet o alla Padania.

Sicuramente la Crimea può vantare argomento storici ben più solidi di molti altri movimenti indipendentisti, ma la verità è che il principio di autodeterminazione dei popoli oltre a essere fumoso è anche un principio pericoloso. Molto bello da pronunciare ma molto pericoloso da applicare.

In nome dell’autodeterminazione dei popoli sono state combattute le guerre che hanno smembrato la Federazione Jugoslava. La Slovenia fu il primo pezzo a staccarsi, sembrò un’operazione indolore, ma legittimò il gioco al massacro che seguì nel resto del paese. E non è detto che l’Ucraina non rischi la stessa fine.

Se i russi di Crimea porteranno la propria regione sotto Mosca, perchè gli ungheresi di Transcarpazia non potrebbero fare altrettanto? Ed effettivamente, il governo di estrema destra di Orban sta passando da vaghe retoriche sulla riconquista della sovranità dei territori persi dal vecchio Regno d’Ungheria alla concreta consegna di passaporti ungheresi a molti cittadini di lingua ungherese della Transcarpazia. E ancora, la Polonia, da cui molto estremisti di destra sono andati a sostenere i camerati ucraini, potrebbe essere tentata di prendersi qualche territorio.

Propaganda sul referendum di Crimea

Un’esplosione del genere rischierebbe di portare la guerra dalla Russia all’interno dell’Unione Europea. Prima di inneggiare all’autodeterminazione dei popoli, prima di entusiasmarsi per l’espansione del campo atlantico o per il ritorno all’assertività del campo eurasiatico (per non parlare di illusioni di ritorno a un “campo sovietico”), sarebbe bene pensarci su. Molto seriamente. La guerra non è uno slogan sparato su facebook.

Generazione Erasmus.

“Siamo la generazione Erasmus”, dice un Renzi più ggiovane che mai. Cioè siamo quella generazione che ha studiato all’estero, ha conosciuto il sogno europeo, ha imparato a conoscere la serietà tedesca/il fascino francese/la facilità di vita spagnola/inserire dote e nazionalità a caso e ora vogliamo far diventare l’Italia un scintillante paese europeo. Parliamo inglese, abbiamo una formazione internazionale, ci siamo liberati delle scorie ideologiche che infestano le nostre università. Chi meglio della nostra generazione può far ripartire le ruote infossate nel pantano italiano? Che meglio della nostra generazione può testimoniare le magnifiche e progressive sorti dell’europeismo?

Si, ho scritto un posto noioso e rancoroso perchè mi sta sulle balle l'ESN

Si, ho scritto un posto noioso e rancoroso perchè mi sta sulle balle l’ESN

A parte che è tutto da dimostrare che chi ha fatto l’Erasmus sia naturalmente superiore a chi non l’ha fatto (lo dico da persona che la sua brava borsa di studio per l’estero l’ha vinta), il fatto è che oggettivamente l’Erasmus è un’ottima metafora dell’Europa reale.

Il progetto Erasmus teoricamente si rivolge a tutti gli studenti. Tralasciamo pure quel dato del crollo delle immatricolazioni, ci arriviamo dopo. Dicevamo, il progetto Erasmus si rivolge a tutti gli studenti iscritti all’università, ma è in realtà fruibile solo da una parte di essi. Non perchè c’è una selezione “di merito”, ma perchè a quella selezione “di merito” può accedere solo chi è in grado di mantenersi all’estero con la magra borsa di studio dell’Erasmus. Non solo, in molti atenei ci sono grandi difficoltà a erogare correttamente tutte le borse. Alcuni atenei hanno dei rappresentanti degli studenti coi controcazzi che riescono a garantire la copertura di tutte le borse, si capisce però che la situazione non è esattamente “includente”.

Quindi, la generazione Erasmus è una minoranza all’interno di quella minoranza che fa l’università. Ma si dirà che non si può contestare il sogno europeo per questo, in fondo l’Europa fornisce direttive precise sull’aumento delle risorse per l’università e la ricerca. Vero. Peccato siano carta straccia. I dati sull’investimento italiano in formazione e ricerca rispetto al PIL stanno lì a dimostrarlo, coi loro bei tagli lineari che gli fanno pure i gestacci di sfottò alle direttive europee. E, curiosamente, mentre il controllo preventivo delle finanziarie funziona in maniera militare, per non parlare dei commissariamenti delle troika, non si notano all’orizzonte commissari europei pronti a minacciare scenari apocalittici se l’Italia non smetterà di mandare in vacca la sua università.

Eppure l’integrazione dell’università italiana nel sistema europeo è andata avanti, fregandosene dei paletti qualitativi del Processo di Bologna. Però i CFU e i prestiti d’onore (affiancati alle borse di studio giusto perchè le borse sono nominate in Costituzione e quindi non possono essere abolite in quanto tali) ce li becchiamo. Eppure, in questo processo di integrazione del sistema universitario è successo che, dopo l’effetto ottico prodotto dal 3+2, gli immatricolati siano diminuiti. E mica di poco, del 10% negli ultimi dieci anni. In un paese in cui già vanno in pochi all’università. Il tutto ovviamente perchè ce lo chiede l’Europa.