Il rosso e il nero (Parte seconda)

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Pubblichiamo la seconda parte (qui la prima) del nostro intervento sul complesso intreccio tra immigrazione e lotta di classe.

È curioso notare come, a volte, persone che dibattono su un argomento da posizioni fortemente contrastanti possano condividere, in maniera inconsapevole, le stesse (erronee) ipotesi di partenza. Una di queste ipotesi è quella delle cosiddette “risorse scarse”. In altri termini, si ipotizza che alcune “risorse” (nel nostro caso, i posti di lavoro) siano date e che l’unico compito della politica sia quello di distribuirle nel modo considerato più “efficiente” o più “giusto”. In questo articolo ci occupiamo di quelli che sostengono la necessità di un certo grado di chiusura delle frontiere nei confronti degli immigrati per non mettere in gioco i diritti acquisiti dai lavoratori italiani, come se i diritti (i salari, i posti di lavoro) dei primi fossero incompatibili con quelli dei secondi. Curiosamente, faremo notare, l’idea che…

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Il rosso e il nero (Parte prima)

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UNITE

Pubblichiamo la prima parte del nostro intervento sul complesso intreccio tra immigrazione e lotta di classe. Molti, troppi, propongono una stretta sui flussi migratori invocando Marx: Marx si maneggia con cura, e quindi proviamo a fare un po’ di chiarezza. Seguirà nei prossimi giorni la seconda parte.

L’arrivo di Matteo Salvini al Viminale ha portato, in maniera non sorprendente, a un imbarbarimento del dibattito riguardo agli sbarchi di immigrati. Ci sono pochi dubbi sul fatto che i propositi e gli atti bellicosi del Ministro dell’Interno siano soprattutto un modo per nascondere l’inconsistenza del governo gialloverde riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Unione Europea: appena si è trattato di scegliere se prendersela con le istituzioni che in questi anni ci hanno condannato a recessione, disoccupazione e bassi salari, o con gli immigrati, la Lega non ha avuto dubbi. Per condurli a miti consigli, è bastato poco.

Ciò che è più…

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I sovranisti della Lega. Ovvero, l’ultima ruota del carroccio

Un articolo di pochi mesi fa, con tanti saluti a Bagnai che prima doveva fare il ministro dell’Economia per portarci fuori dall’euro, poi doveva fare il vice ministro dell’economia per fare il cane da guardia di Tria che non ci vuole portare fuori dall’euro, adesso non fa nulla se non dichiarazioni sulla flat tax.

La Lega candida gli economisti anti euro, ma il cuore rimane altrove.

Nel mondo dei social network la candidatura di Alberto Bagnai con la Lega di Salvini è diventata un caso di rilievo. L’economista Bagnai, di formazione keynesiana, si professa di sinistra e si candida con Salvini nel nome della sovranità. Per alcuni è la prova della natura intrinsecamente fascista di ogni discorso sulla sovranità, per altri è la conseguenza dell’ignavia a sinistra sulla questione europea.

Più prosaicamente: né l’una, né l’altra.

La candidatura di Bagnai a destra è solo l’atto finale di un percorso ormai intrapreso da molto tempo. Almeno da quando, dibattendo con Emiliano Brancaccio, Bagnai aveva stabilito che non si doveva discutere sull’uscita da sinistra dall’Unione Monetaria Europea ma si doveva piuttosto discutere sull’uscita punto e basta. Nella visione di Bagnai, dopo l’euro viene una lira liberamente fluttuante sul mercato e non ci si pone il problema se il prezzo di questo dovrà essere pagato dai redditi da salario. La tesi di Brancaccio era invece che ogni discorso sull’uscita dovesse essere impostato con un orientamento pro-lavoro e, quindi, orientato al controllo dei movimenti di capitale.

La Lega e il consenso

Una volta superato questo equivoco, ce n’è un altro da chiarire: si pensa che lo spostamento di alcuni personaggi “sovranisti” nell’orbita leghista porterà molti voti a Salvini. La verità è che questi personaggi hanno più seguaci sui social network che nella realtà.

Per fare un esempio: alle elezioni europee del 2014 fu l’economista Claudio Borghi a candidarsi con la Lega, nella circoscrizione Nord-Ovest e nella circoscrizione Centro. In totale ottenne 15mila preferenze. A prima vista può sembrare un numero notevole, bisogna però paragonare il risultato ai personaggi che manovrano davvero il consenso nella Lega. Due esempi. Alle elezioni europee del 2009, Fiorello Provera venne eletto con oltre 25mila preferenze, di cui 18mila raccolte solo nella piccola provincia di Sondrio. Secondo esempio: alle elezioni regionali lombarde del 2010, Angelo Ciocca venne eletto con oltre 18mila preferenze raccolte nella sola provincia di Pavia. E gli esempi potrebbero continuare. Basti pensare che Bossi e Salvini contano le loro preferenze nell’ordine delle centinaia di migliaia.

Alla luce di questi numeri, possiamo provare a chiarire un altro equivoco: le posizioni più ideologiche non fanno la fortuna o sfortuna elettorale della Lega. Il consenso largo e diffuso alla Lega viene dal denso reticolo di amministratori locali e di compenetrazione col mondo dell’economia, dalla gestione furba delle risorse pubbliche. Questo non vuol dire che le posizioni ideologiche non siano pericolose, non vuol dire che le sparate sulla razza bianca non facciano scivolare ancora di più verso la barbarie un paese in cui già si spara per le strade. Però vuol dire che dovremmo metterci il cuore in pace sui social network: Bagnai e Borghi non sono il cuore della Lega.

D’altra parte, i due economisti anti-euro sono candidati in Toscana, dove Lega può far bene ma non c’è garanzia di esseri eletti. I posti sicuri davvero, quelli dell’arco lombardo-veneto, sono riservati a nomi come Ugo Parolo o Roberto Mancato. Nomi che compaiono su poche bacheche di Facebook e Twitter, ma che sono il vero cuore della Lega.

https://www.lacittafutura.it/interni/i-sovranisti-della-lega-ovvero-l-ultima-ruota-del-carroccio

Giappone: vince Abe, il guerrafondaio

Il sottoscritto su La Città Futura

Giappone: vince Abe, il guerrafondaio

Arretra il Partito Comunista Giapponese, i giovani votano a destra.

Il capo del governo “liberaldemocratico” Shinzo Abe ha vinto la sua scommessa: la sua coalizione ha confermato la maggioranza alle elezioni anticipate del 22 Ottobre. La coalizione di governo conferma la supermaggioranza dei due terzi tra camera bassa e camera alta, necessaria per modificare la Costituzione. Le elezioni sono state convocate con un anno di anticipo come mossa per sfruttare la divisione dell’opposizione e i risultati economici positivi, prima della riforma delle tasse che si annuncia in senso anti popolare.

La coalizione vincente

Per Shinzo Abe è quindi una vittoria. Il Partito Liberal Democratico (LDP) ha ottenuto il 33,28% (+0,17%) dei voti e 284 seggi sul totale di 465, gli alleati del Komeito il 12,51% (-1,2%) e 29 seggi. Il sistema elettorale misto (un terzo proporzionale, due terzi maggioritario a collegi uninominali) permette di trasformare il 46% dei voti nel 67% dei seggi. Il confronto in termini di seggi con le elezioni precedenti non è significativo, visto che è diminuito il numero totale di parlamentari.

L’LDP è lo storico partito di governo, garante della fedeltà agli Stati Uniti, al governo dagli anni ‘50 a oggi con soli pochi anni di interruzione. Negli ultimi anni si è spostato decisamente verso destra, spingendo per più mercato e per un ritorno ufficiale del Giappone a potenza militare.

Il Komeito è un partito religioso, legato all’organizzazione buddista Soka Gakkai. Ufficialmente il Komeito è un partito pacifista, il giorno dopo le elezioni ha firmato un patto pubblico con l’LDP in cui si impegna ad approfondire il dibattito per riformare la costituzione, in particolare l’Articolo 9 che proibisce la ricostituzione dell’esercito giapponese.

L’opposizione frammentata, arretrano i comunisti

Dopo di anni di sforzi guidati dal Partito Comunista Giapponese (CPJ) per formare un fronte pacifista unito, l’opposizione si è presentata con due coalizioni divise. Il Partito Democratico si è frammentato in due tronconi che sono confluiti nelle due diverse coalizioni.

Uno dei due tronconi ha formato il Partito Democratico Costituzionale (PDC) che è confluito nella Coalizione Pacifista, insieme ai comunisti e al piccolo Partito Social Democratico (SDP). Il PDC ha ottenuto il 19,88% dei voti e 55 seggi. Il CPJ ha ottenuto un notevole 7,9% con 12 seggi, che però rappresenta un arretramento del 3,5% rispetto alle ultime elezioni, quando era riuscito a essere riferimento di tutti i movimenti pacifisti. L’SDP infine ha ottenuto l’1,7% (-0,7%) e due seggi.

L’altro troncone dei democratici ha formato il Partito della Speranza insieme a Yuriko Koike – ex governatrice di Tokyo. Attorno a Koike si è presentata una coalizione di destra. Il Partito della Speranza ha ottenuto il 17,36% e 50 seggi, gli alleati del partito nazionalista Ishin il 6,07% (-9,6%) e 11 seggi. La coalizione di destra ufficialmente è per la revisione della Costituzione, l’avanzamento del Partito della Speranza offre un buon gioco al governo di Abe nel promuovere i suoi progetti guerrafondai. La differenza tra Koike e Abe è il nucleare. Koike si presenta come anti nuclearista anche per l’energia civile, mentre gli ambienti più radicali del governo parlano esplicitamente di armamenti nucleari.

I giovani votano a destra

A queste elezioni l’età del voto è stata abbassata da 20 a 18 anni. Secondo un exit poll del giornale Asahi Shimbun, sono state proprie le coorti più giovani a votare per Shinzo Abe. Gli elettori tra 18 e 19 anni avrebbero votato l’LDP per il 46%, quelli tra 20 e 29 anni, al 47%.

Nello stesso exit poll, le coorti fino ai 40 anni si sono dimostrate in maggioranza favorevoli alla revisione dell’Articolo 9 e alla politica economica di Abe, con maggioranze attorno al 55%. Le coorti più vecchie, invece, si attestano sul 50-50%.

I compiti dei comunisti

Dopo le elezioni e l’arretramento elettorale, il Comitato Esecutivo del CPJ ha indicato due obiettivi di lavoro:

  1. Mettere in pratica la risoluzione del 27esimo Congresso del Partito per organizzare “incontri di discussione del programma del CPJ e il futuro del paese” in ogni angolo del paese;
  2. Lavorare al tesseramento e alla diffusione del giornale del partito (Akahata), per non dover ripetere la situazione di queste elezioni affrontate con meno iscritti e meno diffusione del giornale rispetto alle precedenti elezioni del 2014

https://www.lacittafutura.it/esteri/giappone-vince-abe-il-guerrafondaio.html

L’Ultimo Portatore dell’Anello

The Last Ringbearer – scritto dallo scienziato naturale russo Kiril Yeskov – è noto per essere “Il Signore Degli Anelli” visto dal punto di vista dei cattivi”. (Con qualche SPOILER)

Nella postfazione, Yeskov indica che il motivo che lo ha spinto a scrivere questa versione – in cui Gandalf è un retrogrado genocida e Sua Maestà Sauron VIII un monarca illuminato che sta portando Mordor sull’orlo della rivoluzione industriale – non è dare voce ai cattivi ma coprire alcuni buchi nel world building tolkieniano. In particolare: se Mordor è un deserto, come fa a mantenere i suoi eserciti?  O da Gondor – in particolare, dalle vie commerciali dell’Ithilien – o dai reami del sud e edell’Est, mai descritti nel dettaglio da Tolkien. La guerra dell’Anello, quindi, non è più una guerra di conquista mossa da Mordor contro i “popoli liberi”, è una crisi generata ad arte da Gandalf per preservare il mondo della magia elfica contro la razionalità di Mordor, chiudendo l’accesso alle risorse agricole dell’Ithilien.

Forse la realizzazione meglio operata da Yeskov sono i capitoli in cui Gandalf propone la soluzione finale al problema di Mordor incontrando la resistenza di Saruman, che a sua volta diventa l’ala moderata del Bianco Consiglio, non disposto a provocare lo sterminio per fame del nemico.

 

Questa riscrittura “revisionista” degli avvenimenti del Signore degli Anelli copre solo l’avvio di The Last Ringbearer. La vicenda principale comincia in realtà dopo la sconfitta di Sauron: l’ultimo dei Nazgul – qua un ordine di maghi creato per difendere il regno razionale di Mordor fin quando non fosse in grado di difendersi da solo – incarica un medico di campo e un soldato dell’esercito mordoriano di cercare di distruggere lo specchio di Galadriel e porre per sempre fine al dominio degli elfi. Nella causa imbarcheranno anche un nobile di Gondor e Faramire, in una specie di anti-Compagnia dell’Anello.

 

L’avvio del romanzo vede un chiaro intento allegorico su come la propaganda ha descritto l’Unione Sovietica/Mordor – un regno del male che in realtà cercava di portare il mondo nel regno della razionalità. Nel proseguire, l’autore stacca decisamente da questa allegoria e intenzionalmente mischia i riferimenti al mondo reale – come quando descrive Lothlorien come paese guida di un’Internazionale Elfista con sezioni clandestine nei vari regni umani in cui si arruolano giovani idealisti – ma togliendo mordente al romanzo. Lo stesso tentativo di rendere Umbar una trasposizione uno a uno della Repubblica di Venezia finisce per essere lezioso.

 

Dopo un primo atto giocato sul rovesciamento della narrativa tolkieniana, il secondo e il terzo diventano fondamentalmente un romanzo di spionaggio, in cui la complessità degli apparati di intelligence stona un po’ con la natura pre industriale del mondo che Yeskov vorrebbe descrivere. E che può legittimamente annoiare chi non ama il genere.

 

La scrittura è altalenante, in alcuni tratti potrebbe ricordare l’umorismo di Pratchett – citato anche nella postfazione – mentre in altri si fa seriosa e pesante, con una grande attenzione alla descrizione aulica dei dettagli naturalistici. È però difficile capire se sia un problema di Yeskov o della traduzione in inglese, rigorosamente non professionale per non incorrere nelle azioni legali degli eredi di Tolkien.

 

The Last Ringbearer può in definitiva essere una lettura gustosa per chi ama Il Signore Degli Anelli e magari ha interesse e passione per tutti i rimandi storici e politici. Non si può però dire che Yeskov abbia raggiunto il suo obiettivo di fare una contro storia della Terra di Mezzo che ne correggesse gli errori nel world building e che avesse al suo centro personaggi più a tutto tondo. In fin dei conti, le parti migliori risultano quelle in cui i personaggi di Tolkien agiscono nei paesaggi di Tolkien, mentre i personaggi di Yeskov e la Umbar di Yeskov rimangono personaggi e luoghi di un fantasy interessante ma non molto diverso da molti altri prodotti sul mercato.

 

The Last Ringbearer è disponibile gratuitamente a questo sito: http://www.tenseg.net/press/lastringbearer

Da Zerocalcare ad Aleppo (guerra e retorica umanitaria)

Mio editoriale su La Città Futura

Dal Rwanda alla Siria

Nelle prime tavole di Kobane Calling, il reportage a fumetti del 2015, scritto da Zerocalcare dal fronte tra Kurdistan e Turchia, il protagonista parla con un anziano curdo che gli spiega i bombardamenti, come riconoscere quelli turchi, quelli americani, quelli dell’ISIS. E poi, “i nostri”, i colpi delle forze armate curde.

Mentre i mezzi di comunicazione sono pieni di notizie terrificanti provenienti da Aleppo, vengono in mente quelle tavole: di sicuro, da qualche parte nel mondo, esistono dei media che parlando dei bombardamenti delle forze armate curde come “atrocità contro la popolazione civile”. Ed effettivamente, basta una rapida ricerca su internet per scoprire che le YPG – le Unità di Protezione Popolare operative nel Rojava – sono accusate dalla Turchia di “pulizia etnica”, di uso di bambini soldato dalle Nazioni Unite e di deportazioni da parte di Amnesty International.

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Ma perchè? Perchè NO.

Mancano due settimane al referendum costituzionale.

È ora della predica su come voto.

1 – Voto NO perché sono ideologicamente contrario

Questa è davvero la riforma di JP Morgan, è una riforma anti lavoro, pro capitale.

Ne ho parlato su La Città Futura:

Non è difficile vedere come la riforma di Boschi e Renzi risponda – quasi – punto per punto alle critiche di JP Morgan. Considerando solo i cambiamenti tecnici, la riforma rafforza il ruolo del governo sul parlamento e rafforza lo stato centrale sulle regioni. Oltre ai provvedimenti tecnici, quello che non può passare inosservato è che le ragioni avanzate dalla riforma sono esattamente quelle di JP Morgan: quante volte ci hanno detto negli ultimi anni che “si deve cambiare”, detto come un obbligo assoluto? Esattamente questo obbligo di cambiare è l’ultimo punto sollevato dalla banca d’affari: non ci deve più essere il diritto di resistenza contro i cambiamenti, che si tratti della riforma costituzionale, dell’ennesima riforma del lavoro o dell’ennesima riforma dell’istruzione

2 – Voto NO perché la vittoria di questa riforma significa nessuna riforma per i prossimi 20 anni

La Costituzione va riformata, non è perfetta.

Alcune questioni veloci:

L’Articolo 81, dopo la riforma del 2012 c’è il principio di pareggio di bilancio in Costituzione. Come riporta Giacché, questo sta avendo conseguenze grosse perché il principio del pareggio viene fatto prevalere sugli altri principi costituzionali. In questa maniera qualunque ragionamento su applicare la prima parte della Costituzione è sterile.

L’articolo 11: lo invochiamo continuamente ma – ora come ora – non è l’articolo che ci impedisce di fare la guerra ma l’articolo – attraverso il secondo comma – diventa il ricettore automatico del “diritto internazionale”, cioè NATO, trattati europei, austerità e altre spiacevolezze.

Questioni di genere: ovviamente erano questioni che in Costituente erano – in gran parte – di là da venire.

Ora, se passa ora una riforma impostata in una direzione completamente diversa, chiunque desideri altri tipi di riforme resta fermo al palo. Quindi, è assolutamente falso che l’importante è cambiare.

Andrebbe poi discussa a parte la questione di una possibile abolizione del Senato.

3 – Voto NO perché è una riforma demagogica

Non hanno avuto il coraggio (o meglio, non hanno avuto la volontà politica) di abolire il Senato. Ne risulta l’ormai noto casino di senatori di secondo livello eletti dalle regioni, con i sindaci delle grandi città che diventano senatori. Ora, qualcuno dovrebbe spiegarmi perché un cittadino di Milano ha più diritto di essere rappresentato di un cittadino di Sesto San Giovanni o di Albaredo San Marco. Inoltre, nel nuovo Senato ci saranno sette senatori del trentino contro dodici senatori della Lombardia. Pur avendo il Trentino meno abitanti di Milano.

Questo pastrocchio è stato creato solo per poter dire “abbiamo tagliato qualche poltrona”.

Personalmente non sono un sostenitore dell’esistenza del Senato, penso che la riforma proposta a suo tempo da Ingrao (abolizione del Senato, Camera unica da 500 deputati, legge proporzionale in Costituzione) sia una cosa molto diversa da questo casino.

Inoltre, dato che non hanno avuto la minima volontà di toccare un centro di potete e interessi veri come il Senato, hanno voluto abolire il CNEL per poter dire demagogicamente “abbiamo cominciato ad abolire gli enti inutili”. Ne avevo già scritto qui.

4 – Voto NO perché è una riforma fatta male

L’ex presidente Napolitano ha fatto dichiarazione di voto favorevole alla riforma affermando che si sarebbe dovuto poi tornare a correggere gli errori tecnici. Errori tecnici che sono stati fatti soltanto per poter farsi il vanto ideologico della riforma fatta in pochi mesi.

Ma soprattutto, è una riforma che riapre la storia infinita dei conflitti di competenze tra stato centrale e regioni. Come già successo con la riforma del 2001, ci vorranno anni di sentenze della Corte Costizuionale per risolvere. Che a livello pratico vuol dire che i cittadini e le istituzioni perderanno montagne di tempo.

5 – Voto NO perché di Salvini e Berlusconi non mi importa nulla

Che ci sia un NO di destra non mi importa nulla. Mi importa del mio NO. Non mi importa nulla neanche del NO di D’Alema e della sinistra PD.

Ho una mia autonomia politica.

D’altra parte, non è che tra Verdini, Alfano e Alessandra Mussolini si possa stare col SÌ in compagnia solo di galantuomini.

6 – Voto NO perché non è la mia unica battaglia

Oltre al referendum ci sono mille fronti aperti. Le energie non sono infinite, su alcuni fronti sono in prima linea, su altri non posso arrivare. Il referendum non esaurisce quello che si fa. Se vince il SÌ sarà un po’ peggio per tutti i fronti.

Due righe, serie, sul medagliere europeo

Se l’UE si presentasse come nazione unica alle olimpiadi presenterebbe meno atleti e prenderebbe meno medaglie. Questo è un fatto incontrovertibile.
 
Si potrebbero fare molti ragionamenti a partire da questo, ma mi concentro su uno solo.
 
Il medagliere europeo è una maniera populista di stimolare un nazionalismo europeo. Populista nel senso peggiore: quello di raccontare balle al popolo illudendolo su cose irrealizzabili.
 
Il fatto che la vaccata sul medagliere europeo sia stata ora diffusa anche dall’account ufficiale dell’Europarlamento, dimostra che la tattica comunicativa delle istituzioni europee è profondamente populista.
Un annetto fa Guy Verhofstadt ha avunto un momento di popolarità con il suo discorso all’Europarlamento in cui attaccava Tsipras perchè non aveva ancora posto fine ai “privilegi” degli armatori, dell’esercito, della Chiesa e delle isole greche. Un discorso biecamente populista perchè nascondeva che i privilegi dei militari sottostanno a contratti di fornitura militare comprati con la corruzione dalle imprese tedesche, perchè nasconde che i suoi referenti politici in Grecia sono esattamente i referenti politici degli armatori, perchè nasconde che i privilegi delle isole greche erano gli sgravi sull’IVA perchè oggettivamente stanno in mezzo al mare e quindi hanno oggettivamente costi enormemente maggiori per procurarsi ogni prodotto. Soprattut, era un discorso populista perchè dava in pasto all’elettorato dei paesi del centro-nord l’immagine dei greci fannulloni e parassiti. Nè più nè meno di un Bossi qualsiasi coi terroni. Non è un caso che dopo un decennio di retorica del genere, in Germania esploda l’AFD.
È populista l’operazione di avere nelle università le cattedre Jean Monet in cui, letteralmente, si insegna che “gli USA hanno un portafoglio, l’UE ha anche un cuore:l’Erasmus”. 
È populista il medagliere europeo.
E, ovviamente, chi ha diffuso acriticamente questa baggianata, sarà in prima linea a dare del “populista” a chi metterà in dubbio le verità ufficiali dell’Unione.
E, c’è da chiedersi, quanti tra costoro saranno manovratori populisti e quanti saranno i manovrati, per di più convinti di essere molto più intelligenti dei manovrati da Le Pen e Farage.

Piketty, o degli intellettuali rock-star

Piketty si è dimesso da consigliere del Partito Laburista in Inghilterra. Togliatti avrebbe commentato “se ne ghiuto, soli ci ha lasciato”.

Non più tardi di un paio di anni fa Piketty è stata una vera e propria rockstar degli intellettuali. Su qualunque argomento, ne veniva richiesta l’opinione come se fosse un oracolo o, più prosaicamente, Karl Marx redivivo.

Ovviamente non si tratta di sminuire il lavoro accademico di Piketty, il punto è il rapporto tra “gli intellettuali” e “la politica”. In maniera farsesca questo problema lo vediamo in Italia, dove è in corso (ormai, quasi finita) la grande fuga dalle organizzazioni di sinistra radicale a qualunque altro luogo che offra visibilità e influenza: il Movimento 5 Stelle, il Gruppo De Benedetti, per i più sfortunati, ambienti rosso-bruni. Ovviamente, si tratta di farsa sia per gli intellettuali in fuga sia per organizzazioni della sinistra incapaci di mantenere un rapporto diverso da “aderire all’ordine del capo”.

Nel Regno Unito è invece tragedia.Dopo la vittoria della Brexit, mentre i conservatori sono dilaniati, mentre l’estrema destra si sfrega le mani, mentre Tony Blair torna sulla scena per uccidere la sinistra laburista, mentre il Regno Unito corre il rischio di uscire dall’Unione Europea guidato dai liberoscambisti xenofobi, la rockstar intellettuale non trova niente di meglio da fare che andarsene perché “sono deluso dalla campagna elettorale”.

La domanda allora rimane, sia nella farsa italiana sia nella tragedia inglese, abbiamo bisogno di intellettuali che non sanno far parte di un progetto collettivo? Che valore aggiunto ci da avere un Piketty se nel momento della battaglia si r