Corsi e ricorsi.

“L’insieme delle misure che abbiamo descritto produsse una caduta considerevole della domanda globale. Il 1975 fu un anno di dperessione gravissima, per l’Italia come per gli altri paesi industrializzati. Per la prima volta si registrò non soltanto una caduta degli investimenti, ma una caduta anche del livello assoluto del reddito nazionale. Sia nei dibattiti interni sia nelle valutazioni internazionali, la situazione italiana veniva presentata come quella di un’economia sull’orlo del collasso. Il Fondo Monetario Internazionale esigeva sempre nuovi impegni di compressione della domanda globale. Nel Gennaio 1976 le banche statunitensi furono ufficialmente sconsigliate dall’accordare nuovi prestiti all’Italia, paese che andava considerato come particolarmente rischioso.

Si fece strada in tal modo l’idea che la soluzione andasse ricercata non soltanto affidandosi a manovre economiche, ma anche sul terreno politico, e che solo un governo di coalizione, esteso a tutti i partiti dell’arco costituzionale, potesse riportare il paese alla normalità.”

Augusto Graziani, Lo Sviluppo dell’Economia Italiana, pag. 127

1975. A curare la politica delle alleanze del PCI c’era lui.

La decrescita è di destra?

Ieri ho partecipato a un incontro sulla “decrescita felice” organizzato a Chiavenna dal Circolo “Iqbal Masih” di Rifondazione Comunista e dal Circolo ARCI Millepapaverirossi. Purtroppo sono dovuto andare via prima della fine del dibattito, queste quindi sono impressioni che riguardano le due relazioni fatte da Fausto Gusmeroli (agronomo della Fondazione Fojanini di Sondrio) e da Giuseppe Leone (Movimento Decrescita Felice).

La prima cosa da notare è che la serata è stata numericamente partecipata, una quarantina di partecipanti a un evento del genere in Provincia di Sondrio è un successo, con anche qualche faccia al di fuori del giro dei soliti noti. A livello intuitivo esiste una percezione abbastanza diffusa che “con questo modello di sviluppo non si può continuare” e che un ritorno alla crescita del Prodotto Interno Lordo (ritorno che comunque è di la da venire) non migliorerebbe le condizioni di vita della maggior parte della popolazione.

Venendo al succo dell’incontro: tanto l’intervento della Fondazione Fojanini è stato interessante e problematico, tanto quello del Movimento Decrescita Felice è state deleterio.

La parte interessante dell’intervento di Gusmeroli è stata il nesso esplicito tra crescita e capitalismo, tra l’ideologia della competizione che da trent’anni domina i paesi occidentali e la necessità del capitalismo (ai fini della propria sopravvivenza) di espandere settori dannosi per l’uomo e per l’ambiente. L’altra gamba interessante del discorso è stata invece la differenziazione tra paesi e classi. Non si può parlare di decrescita o di diverso modello di sviluppo allo stesso modo nei paesi a capitalismo avanzato o in quelli in via di sviluppo, non si può parlare di decrescita in maniera indifferente quando c’è la disoccupazione di massa. Non è mancata la tipica ambiguità di questi discorsi, a partire l’elogio della cooperazione (come se fosse l’esatto contrario della competizione) e dall’indefinitezza delle possibili soluzioni.

L’intervento di Leone invece ha riproposto i peggiori cliché sulla decrescita ed è stato permeato da un clima didattico-religioso che ha fatto dire a qualcuno seduto vicino a me che sembrava un incontro con l’indottrinatore di Scientology. A parte il tono (che potrebbe essere giustificato se il relatore avesse qualche particolare autorità, ma non era il caso), il discorso aveva due enormi problemi di fondo.

1)      Fin da subito Leone ha definito il Movimento come “né di destra né di sinistra”, vantando anche la buona accoglienza ricevuta in ambienti di destra;

2)      Leone ha impostato un discorso profondamente individualista. Tutte le soluzioni erano comportamenti individuali, da quelli intelligenti (varie forme di risparmio energetico, consumo critico…) a quelle decisamente stupide (mandare poche mail perché anche Google consuma energia).

Purtroppo non sono potuto restare per tutto il dibattito. Il mio intervento sarebbe stato all’incirca così:

Non esiste nulla che sia neutrale rispetto a destra e sinistra. Viviamo oggi in una decrescita gestita dalla destra (e da una sinistra succube alla destra), che si realizza nella disoccupazione di massa. È appena interessante notare che, anche nel caso volessimo considerare la compatibilità ambientale più importante dei diritti sociali, questa decrescita di destra continua a distruggere l’ambiente. L’ILVA di Taranto è solo l’esempio più evidente. Ma l’ILVA è anche la dimostrazione che nessun comportamento individuale virtuoso cambierà il sistema, se tutti i tarantini usassero la bicicletta al posto della macchina continuerebbero lo stesso a beccarsi il cancro. Come diceva Dimitrov: le cose si fanno dal basso e dall’alto. Dal basso va costruita la consapevolezza dell’insostenibilità dell’ILVA, dall’alto deve arrivare l’imposizione statale a riconvertire la produzione in senso ambientale.

Marx diceva che l’umanità si pone solo problemi che può risolvere. Oggi ci poniamo il problema della decrescita perché c’è oggettivamente un problema di compatibilità dello sviluppo capitalistico con la vita umana all’interno dell’ambiente. Ragionare in termini d’individualismo e di neutralità della “decrescita” rispetto alle classi sociali significa regalare alle classi dominanti l’egemonia su un processo di decrescita gestito in maniera conservatrice e reazionaria. Da parte nostra sarebbe appena il caso di abbandonare lo stesso termine di “decrescita”, ormai sempre più legato alle idee deleterie di cui sopra, e di cominciare a parlare di pianificazione della riconversione ambientale.

Certo, a parlare di pianificazione oggi sembra di rievocare una storia morta e sepolta, quelle del movimento operaio dell’ottocento e del novecento. Ma non è anche questo il frutto dell’egemonia delle idee di competizione degli ultimi 30 anni? Rifiutarsi di ragione anche in termini di pianificazione significa lasciare il campo libero alla “decrescita di destra” di Merkel, Letta e Draghi. I leader della decrescita, da Latouche a Petrini, che insistono nel pensare a una decrescita né di destra né di sinistra, spianano la strada alla decrescita di destra-

Militanti pavidi e guerrieri mediocri

centrodelfiume

Provo enorme rabbia e smarrimento. Non sono triste per il fatto che le cose vanno male. In fondo lo so che la parte dalla quale ho scelto di stare perderà sempre. La speranza è una brutta bestia da cui è meglio non lasciarsi fregare parafrasando Pasolini.

Eppure, come egli stesso diceva, la coscienza del perdere non può e non deve farci credere che ci si possa arrendere, che si possa rinunciare anche solo ad un pezzetto del nostro ardore.

Purtroppo è quello che in troppi hanno fatto negli ultimi decenni e ogni giorno questo comportamento diventa sempre più dannoso.

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Tutte le contraddizioni di Bini Smaghi

Il convegno di Economia Per I Cittadini sul libro di Bini Smaghi. Specialmente l’intervento di Brancaccio.
Dice che le illusioni sulla Germania che abbandona l’austerità sono infondate.

Keynes blog

morire-austerita-190x300di Stefano Lucarelli per Keynes Blog

Non è cosa di tutti i giorni vedere un ex membro del comitato esecutivo della BCE arrampicarsi sugli specchi dinanzi ad una serie di critiche puntuali. Mercoledì scorso ad Ancona, Lorenzo Bini Smaghi ha presentato e discusso con alcuni degli economisti italiani più capaci di criticare le ricette mainstream per uscire dalla crisi, il suo ultimo libro Morire di austerità. L’incontro era organizzato dal Mofir, un gruppo di ricerca estremamente vivace, attento all’analisi empirica delle principali variabili di politica monetaria e fiscale senza essere incline alla baloccometria (pericolo denunciato da de Finetti ben prima dello scandalo Reinahrt-Rogoff) e capace anche di aprirsi ad un pubblico di non specialisti.

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Elezioni in Malaysia

Elezioni, leggi elettorali antidemocratiche, coalizioni contro natura, gente che governa pur essendo in minoranza, partiti religiosi dilaganti.

Ci lamentavano dei vestiti di Giannino, ci lamentavamo….

Non è l’Italia, è la Malaysia. Youtrend pubblica un mio piccolo articolo: Come perdere le elezioni col 50,1% dei voti.

No, il peggio non era Marini

No, il peggio non era Marini.

Quando PD e PdL si sono messi d’accordo per eleggere Marini Presidente della Repubblica, ho scritto che il peggio non era la figura di Marini in sé, e nemmeno l’accordo politico tra i due partiti. Il peggio era che la reazione della “base del PD” contro l’accordo restava tutta sul piano politicista. Quello che è successo nei giorni successivi ha tristemente confermato. Le simpatie coagulate attorno alla figura di Rodotà non hanno fatto fare passi in avanti. Abbiamo assistito a giornate in cui militanti spaesati si chiedevano perché il PD non lo potesse votare, non rendendosi conto della differenza tra le elaborazioni di Rodotà in tema di beni comuni, uscita dall’austerità, laicità e rappresentanza sindacale e la linea del PD di liberalizzazioni, fedeltà all’austerità, sostegno alle scuole clericali e sostegno alla linea anti sindacale di Marchionne. E Rodotà non è certamente un estremista

Matteo Pucciarelli descrive così una giornata di discussione nei circoli democratici milanesi tra militanti ed eletti:

La rassegnazione da una parte, il politicismo da un’altra, perché dopotutto «è un governo guidato da uno dei nostri», e poi «abbiamo eletto un presidente della Camera che è nostro, un presidente del Senato che è nostro, un presidente della Repubblica che è nostro». Tutta la rabbia era diretta al capire chi fossero i 101 franchi tiratori – il che è pure giusto, ma non mi pare la questione dirimente. Una rimozione totale e collettiva sul fatto che le promesse di alternativa, di cambiamento, di «mai più governi con la destra», di Italia Bene Comune, di decenni di battaglie fossero stato letteralmente buttate al macero. Non un cenno per dire: scusate, ma la democrazia serve ancora? Cosa siamo andati a votare a fare se tutto è rimasto come era? Con quale coraggio scendiamo a patti con chi fino a un mese prima manifestava contro i giudici fuori dal Palazzo di Giustizia?  E Stefano Rodotà, perché Rodotà no?

Già, perché non Rodotà?

Rodotà è fondamentalmente un moderato, partito dai Radicali, è stato indipendente nelle liste del PCI e dagli anni ’90 ha sempre preferito il PDS-DS-PD a Rifondazione Comunista. È un moderato che pensa che i diritti vadano affermati con un nuovo diritto, più che con la lotta di classe. Eppure per il PD questo neanche il vecchio professore moderato va bene, perché nella sua moderazione Rodotà ha preso posizioni precise: con la FIOM, per i beni comuni, contro l’austerità. Il PD invece ha sempre sostenuto Marchionne, s’è accodato solo all’ultimo momento ai referendum sull’acqua ed ha provato poi a sabotarne l’applicazione e, soprattutto, non intende mettere in discussione l’austerità.

Oggi, la base del PD (con le ovvie e lodevoli eccezioni, che non sembrano però in gradi di battere alcun colpo) sembra addirittura incapace di leggere queste palesi divergenze politiche. Il peggio non era Marini, il peggio era e rimane il terribile scollamento tra la realtà la piccola minoranza che in buona fede cerca di fare politica nell’unico partito di rilievo rimasto “a sinistra”.

Intendiamoci.

Non credo che l’elezione di Rodotà (o di Prodi con Rodotà Presidente del Consiglio) avrebbe aperto le porte al governo di grande cambiamento promesso dal PD in campagna elettorale. Penso che fossero parole vuote e che sotto una sottile patina di cambiamento il programma elettorale prometteva la continuazione dell’austerità con qualche aggiustamento cosmetico.

Penso però che Rodotà Presidente della Repubblica sarebbe stato qualcosa di positivo, un Presidente molto più vicino allo spirito della Costituzione di quanto lo sia Napolitano (o Marini, o la Finocchiaro o qualsiasi altro possibile candidato del PD). Sarebbe stato importante se Rodotà avesse potuto definire, da Presidente, la convenzione per la riforma costituzionale un rischiosissimo attacco ai principi costituzionali.

Ovviamente è un ragionamento per assurdo, oggi Rodotà non è Presidente proprio perché in Parlamento esiste una maggioranza che vuole far uscire definitivamente la Costituzione dal suo spirito originale, cominciando dalle riforme costituzionali, possibilmente con l’introduzione di un semi presidenzialismo alla francese.

Questa maggioranza comprende anche i giovani turchi, la cosiddetta “ala sinistra del PD”, che dopo aver giurato e spergiurato di essere nemici irriducibili del governissimo e dell’austerità, si sono accomodati sulla poltrona, più precisamente sulla poltrona di vice ministro dell’economia occupata da Stefano Fassina.

Una sana dose di realtà per chi ha passato gli ultimi mesi a sperare che Fassina si rivelasse una specie di Melenchon in salsa italiana. Alla fine, è stato più simile a Bombacci.

Bombacci, quello che aderì alla Repubblica di Salò continuando a considerarsi un socialista.

L’unico a marcare un minimo di dignitosa distanza è Civati. Ma non più che un atto simbolico.

Miti da sfatare.

Rimane la classica domanda: che fare?

Dando per scontata l’impossibilità di agire in sostegno di questo governo, rimane un po’ di sana, dura, opposizione di classe. È già chiaro che dietro alle promesse di cambiamento della Riforma Fornero si nasconde un peggioramento nel senso di più precarietà, solo per fare un esempio. Occorre rompere l’apatia e organizzare il conflitto sociale anche fuori dalle grandi giornate di mobilitazione e sciopero, occorre costruire una forza politica organizzata e radicata (e per quel che mi riguarda, comunista) che non sia in balia dell’1% in più o in meno alle elezioni.

Ma per fare questo è necessario liberarsi di alcuni miti.

1)      Il mito del rimbalzo. È stato il mito di cui Rifondazione è stata prigioniera negli ultimi anni, l’idea che una volta toccato il fondo, sia in termini di consenso sia di condizioni materiali di vita delle classi popolari, ci sia una ripresa automatica del conflitto sociale o del consenso per le sinistre. La realtà ci ha insegnato che i partiti della sinistra possono restare a sguazzare in un misero 2% e che all’aumentare della crisi non aumenta la lotta, aumenta la rassegnazione.

Vah come rimbalziamo bene, vah che roba

Vah come rimbalziamo bene, vah che roba

2)      Il mito dell’album Panini. È il mito che Sinistra e Libertà ha provato ad agitare convocando la manifestazione dell’11 Maggio: mettiamo insieme le figurine di Vendola, Rodotà, Barca, Cofferati e Landini costruiremo una gran bella squadra sinistra. A parte che metà dei personaggi hanno già risposto picche, non fa altro che riproporre un’aggregazione di leader (con i loro pregi e i loro difetti) senza mettere in campo un progetto di organizzazione e radicamento. Un po’ come abbiamo fatto con Rivoluzione Civile: tanti bei nomi, tante buone intenzioni, risultati imbarazzanti.

Mi dai Miccoli in cambio di Cremaschi?

3)      Il mito della FIOM. Intendiamoci, sostenere la FIOM è un dovere di tutti, non esiste dissenso rispetto alle scelte tattiche di Landini che possa giustificare il mancato sostegno alla manifestazione del 18 Maggio o alle altre iniziative che saranno messe in campo. Detto questo, la FIOM è un sindacato e non può sostituire la politica. Può organizzare una manifestazione nazionale ogni due anni che sia anche politica, può produrre una buona proposta di legge sulla rappresentanza sindacale e può indicare dei temi come la riconversione ambientale e pacifica delle produzioni. Ma la FIOM ha dei limiti su due piani. Prima di tutto è una categoria, e un conflitto generale non può coinvolgere solo i metalmeccanici, in questo senso è evidente l’insufficienza sia delle altre categorie CGIL sia dei sindacati di base. In secundis, è un sindacato, può occuparsi di tante cose ma al centro ha la difesa dei suoi lavoratori, non può abbandonare questo lavoro per ragionare dell’euro, della politica estera, della gestione dei comuni e di come tenere insieme tutto questo. Quello è il compito della sinistra politica.

Via, una bella foto con un po’ di bandiere rosse ci sta sempre bene

4)      Il mito di Beppe. No. Grillo non farà quello che noi non siamo stati in grado di fare. Di fronte alla prima occasione per organizzare una manifestazione a Roma contro la rielezione di Napolitano, il Movimento 5 Stelle s’è pavidamente tirato. Che sia stato perché temeva di non poter controllare la manifestazione come un suo comizio o per le pressioni che pare siano arrivate direttamente dal Ministro Cancellieri, la sostanza è che alla mobilitazione è stata preferita una conferenza stampa. Grillo non sarà il nuovo soggetto che solleverà il conflitto generale che siamo stati incapaci di sollevare noi, perché semplicemente non gli interessa. Gli interessano tanti piccoli conflitti locali da capitalizzare nel momento elettorale.

Roba da matti, dobbiamo fargli un culo così. Ma non questa domenica che al ministro gli scoccia

Il peggio potremmo essere decisamente noi, se rimarremo prigionieri di questi miti.