I sovranisti della Lega. Ovvero, l’ultima ruota del carroccio

Un articolo di pochi mesi fa, con tanti saluti a Bagnai che prima doveva fare il ministro dell’Economia per portarci fuori dall’euro, poi doveva fare il vice ministro dell’economia per fare il cane da guardia di Tria che non ci vuole portare fuori dall’euro, adesso non fa nulla se non dichiarazioni sulla flat tax.

La Lega candida gli economisti anti euro, ma il cuore rimane altrove.

Nel mondo dei social network la candidatura di Alberto Bagnai con la Lega di Salvini è diventata un caso di rilievo. L’economista Bagnai, di formazione keynesiana, si professa di sinistra e si candida con Salvini nel nome della sovranità. Per alcuni è la prova della natura intrinsecamente fascista di ogni discorso sulla sovranità, per altri è la conseguenza dell’ignavia a sinistra sulla questione europea.

Più prosaicamente: né l’una, né l’altra.

La candidatura di Bagnai a destra è solo l’atto finale di un percorso ormai intrapreso da molto tempo. Almeno da quando, dibattendo con Emiliano Brancaccio, Bagnai aveva stabilito che non si doveva discutere sull’uscita da sinistra dall’Unione Monetaria Europea ma si doveva piuttosto discutere sull’uscita punto e basta. Nella visione di Bagnai, dopo l’euro viene una lira liberamente fluttuante sul mercato e non ci si pone il problema se il prezzo di questo dovrà essere pagato dai redditi da salario. La tesi di Brancaccio era invece che ogni discorso sull’uscita dovesse essere impostato con un orientamento pro-lavoro e, quindi, orientato al controllo dei movimenti di capitale.

La Lega e il consenso

Una volta superato questo equivoco, ce n’è un altro da chiarire: si pensa che lo spostamento di alcuni personaggi “sovranisti” nell’orbita leghista porterà molti voti a Salvini. La verità è che questi personaggi hanno più seguaci sui social network che nella realtà.

Per fare un esempio: alle elezioni europee del 2014 fu l’economista Claudio Borghi a candidarsi con la Lega, nella circoscrizione Nord-Ovest e nella circoscrizione Centro. In totale ottenne 15mila preferenze. A prima vista può sembrare un numero notevole, bisogna però paragonare il risultato ai personaggi che manovrano davvero il consenso nella Lega. Due esempi. Alle elezioni europee del 2009, Fiorello Provera venne eletto con oltre 25mila preferenze, di cui 18mila raccolte solo nella piccola provincia di Sondrio. Secondo esempio: alle elezioni regionali lombarde del 2010, Angelo Ciocca venne eletto con oltre 18mila preferenze raccolte nella sola provincia di Pavia. E gli esempi potrebbero continuare. Basti pensare che Bossi e Salvini contano le loro preferenze nell’ordine delle centinaia di migliaia.

Alla luce di questi numeri, possiamo provare a chiarire un altro equivoco: le posizioni più ideologiche non fanno la fortuna o sfortuna elettorale della Lega. Il consenso largo e diffuso alla Lega viene dal denso reticolo di amministratori locali e di compenetrazione col mondo dell’economia, dalla gestione furba delle risorse pubbliche. Questo non vuol dire che le posizioni ideologiche non siano pericolose, non vuol dire che le sparate sulla razza bianca non facciano scivolare ancora di più verso la barbarie un paese in cui già si spara per le strade. Però vuol dire che dovremmo metterci il cuore in pace sui social network: Bagnai e Borghi non sono il cuore della Lega.

D’altra parte, i due economisti anti-euro sono candidati in Toscana, dove Lega può far bene ma non c’è garanzia di esseri eletti. I posti sicuri davvero, quelli dell’arco lombardo-veneto, sono riservati a nomi come Ugo Parolo o Roberto Mancato. Nomi che compaiono su poche bacheche di Facebook e Twitter, ma che sono il vero cuore della Lega.

https://www.lacittafutura.it/interni/i-sovranisti-della-lega-ovvero-l-ultima-ruota-del-carroccio

Gli spazi aperti da Lisbona

Prendo questo spazio per fare un piccolo annuncio: sono uscito dalla redazione de La Città Futura. Senza fare troppi drammi, abbraccio i compagni con cui ho lavorato in questi anni (tre anni! ) e spiego perché questa uscita.

Chi ha letto la rivista negli ultimi mesi può aver notato una progressiva divaricazione tra quello che ho scritto io e quello che hanno scritto altri compagni.

La redazione de La Città Futura è sempre stata un collettivo politico, ora, col processo di Potere al Popolo, la sua natura di collettivo politico si sta approfondendo. Tra le questioni che mi allontanano dalla redazione, c’è la questione europea. In particolare, la lettura degli spazi aperti dalla Dichiarazione di Lisbona. La linea editoriale seguita dalla rivista è di critica serrata, mentre io, insieme agli altri compagni che hanno firmato l’appello Avanti sul serio leggiamo la dichiarazione molto più positivamente, come ho scritto anche nell’articolo che ho pubblicato su LCF e che riporto qua sotto. Poi, alcune considerazioni nate dalla discussione con molti compagni e compagne in seguito al balletto Mattarella-Salvini-Di Maio-Conte-Savona-Calenda.

Gli spazi aperti da Lisbona

Verso le due giornate di Napoli di Potere al Popolo, avanza la discussione sull’Europa.

Durante l’evento Marx2018 organizzato dal Partito della Rifondazione Comunista, l’attuale vice-presidente del Partito della Sinistra Europea (SE) Paolo Ferrero ha svolto un lungo intervento pubblico sulla storia del PRC e i suoi compiti, rimarcando la linea assunta da molti anni per la costruzione della cosiddetta “unità della sinistra”. Fin qui, nessuna novità. Discutendo delle europee, Ferrero ha sostenuto che la linea dell’unità della sinistra sia fondamentalmente condivisa dalle altre forze europee e che la Dichiarazione di Lisbona, firmata dagli spagnoli di Podemos, dai francesi di La France Insoumise e dai portoghesi del Bloco de Esquerda, vada proprio in questa direzione.

Secondo Ferrero, il fatto che Podemos dialoghi contemporaneamente con Izquierda Unida (alle ultime elezioni hanno corso insieme nella lista Unidos Podemos, con risultati non brillantissimi) e con la proposta di Mélenchon, sarebbe la dimostrazione che la proposta di unità propria del PRC (e del Partito della Sinistra Europea) starebbe facendo passi da gigante.

La dichiarazione di Lisbona

La Dichiarazione di Lisbona è sottoscritta da tre partiti della sinistra con storie e culture politiche diverse (fra l’altro, uno dei motivi a cui si può imputare una certa debolezza teorica).

Partito Cultura politica Partito della Sinistra Europea Posizione sul governo nazionale Posizione sull’euro
Bloco de Esquerda Fazioni eurocomuniste, trotzkiste e marxiste-leniniste Si Sostegno esterno al governo socialdemocratico A favore dell’uscita
Podemos Populismo di sinistra, minoranza trotzkista No Opposizione al governo di destra Ha sempre evitato di prendere una posizione precisa
La France Insoumise Populismo di sinistra, vari membri appartengono ad altre organizzazioni No Opposizione al governo centrista Piano B

A complicare il quadro si potrebbe aggiungere che molti dirigenti di La France Insoumise sono ancora dirigenti del Parti de Gauche, che fa parte della SE. A prima vista sembrerebbe un processo di convergenza tra forze di sinistra diverse, e Ferrero sembrerebbe avere ragione. In realtà, se appena si allarga lo sguardo alle dinamiche delle sinistre europee negli ultimi anni, il documento di Mélenchon, Iglesias e Martins sembra costruire un contraltare a quella di Varoufakis (che, per la verità, non sembra decollare in alcuna maniera) e anche alla linea stabilita dalla SE all’ultimo congresso, che possiamo riassumere con “unità della sinistra” a livello europeo. In quest’ottica la SE ha organizzato una serie di eventi in cui confrontarsi con forze politiche della famiglia ecologista e con esponenti socialdemocratici, costituendo anche un coordinamento progressista all’interno del Parlamento Europeo.

Aldilà del lavoro sulle singole questioni, normale in un’istituzione del genere, si tratta di un tentativo di portare alle prossime europee un’alleanza di sinistra su posizioni di riforma dell’Unione Europea simili, per non dire identiche, a quelle praticate dal governo Tsipras. Per quanto il testo di Lisbona non sia avanzato, contiene due elementi importanti:

  1. Indica come strumento una serie di lotte comuni sul piano europeo e sul piano nazionale
  2. Indica come obiettivo la difesa delle sovranità dei popoli europei

Per quanto non venga nominato il “piano B”, è evidente lo scartamento rispetto al piano retorico della sinistra europeista. Basta ricordare, per esempio, per quanto tempo la discussione interna alla sinistra è stata dominata dall’idea che l’organizzazione sul piano nazionale sarebbe inutile e che bisognerebbe invece costruire il partito (il sindacato, il movimento) su scala europea. E basta ricordare che la parola sovranità è stata bandita con l’accusa di rossobrunismo (strumentale nove volte su dieci), col brillante risultato di aver regalato spazio ai fascisti veri.

Da Lisbona a Napoli

Insieme ad altri compagni membri del CPN del PRC, durante l’incontro Marx2018, ho firmato un documento in cui esprimiamo apprezzamento per la scelta di Potere al Popolo di aderire alla Dichiarazione di Lisbona. Già durante la campagna elettorale per le politiche si è manifestato un apprezzamento di Potere al Popolo per la linea di Mélenchon sull’Europa. Penso che l’adesione a questa dichiarazione sia un buon primo passo per la discussione sull’Europa interna a PaP che, com’è noto, sarà uno dei principali tavoli su cui si lavorerà a Napoli. Un primo passo che pone PaP al di fuori della linea asfittica della SE.

Ovviamente un buon primo passo non basta, soprattutto non può essere un passo solo tattico. Non ho la sfera di cristallo per sapere se Podemos si evolverà in maniera conseguente, ma di sicuro dovremo farlo noi. Nominare le lotte sul piano nazionale e l’attuazione delle sovranità dei popoli europei ha come conseguenza assumere almeno il profilo del Piano B. Dico “almeno” per un motivo. La vicenda del governo Tsipras dovrebbe essere una lezione importante per tutti noi (e non è un caso che la SE si sia rifiutata di trarre conclusioni da questa vicenda). Abbiamo visto un governo di sinistra radicale essere eletto promettendo la fine dell’austerità, restando nell’Unione Europea e nell’Unione Monetaria. Sappiamo bene com’è andata.

L’economista Lapavitsas, all’epoca nel comitato centrale di SYRIZA e ora fuoriuscito, insieme al collega tedesco Flassbeck, avevano in effetti avvertito che si sarebbe arrivati a dover scegliere tra l’attuazione di un programma a favore delle classi popolari e la permanenza nell’UE. Nel loro libro Against The Troika (pubblicato nel 2015 da Verso Books), i due economisti consideravano una serie di passaggi tecnici necessari per un’eventuale uscita da sinistra, ma specificavano anche che non si tratta solo di tecnica, ma anche di politica. Senza un’adeguata preparazione di massa all’idea che si possa rompere con l’Unione Europea e senza un’adeguata preparazione sul perché si debba rompere, ci si trova disarmati di fronte al momento della rottura. Anche con lo straordinario risultato del referendum in tasca, Tsipras non avrebbe potuto davvero muoversi con la rottura perché aveva costruito la sua posizione sul giuramento che mai e poi mai avrebbe rotto.

Per questo, secondo me, la linea del Piano B può essere una buona linea da portare agli elettori. Una linea che nomina un nemico da combattere e prepara alla possibilità della rottura. Nelle condizioni di arretramento politico e debolezza organizzativa in cui dobbiamo operare, riuscire ad assumerla non sarebbe poco.

Considerazioni post assemblea di Napoli e post delirio istituzionale.

Alcuni compagni considerano una discussione inutile, fuorviante, quella che si tiene dentro Potere al Popolo sull’Europa. Ovvero: dato che non abbiamo la possibilità di governare un’uscita dall’UE, non dovremmo porci questo problema, limitare a dire che siamo contro l’UE.

Io penso che invece sia utile che PaP faccia questa discussione, che sia utile la maniera in cui questa discussione è stata scoperchiata a Napoli.

Breve riassunto: ci sono due posizioni, entrambe confermano la lettura dell’irriformabilità dell’UE, della necessità della rottura. Una posizione dice che bisogna costruire la forza politica (sociale, sindacale, partitica, di movimento) dei movimenti operai a livello europeo fino a far saltare gli assetti dell’UE. L’altra posizione dice che la rottura può essere fatta in vari momenti e in varie direzioni (collaborazione tra stati europei, collaborazione tra stati euro mediterranei e così via). Quindi, a condizioni che ora non sono prevedibil, anche la possibilità di una rottura unilaterale. Nell’ottica degli obiettivo del movimento politico e sociale che PaP vuole essere, bisogna sabere che abbiamo nemici interni e nemici esterni.

C’è poi una terza linea, che non ha una sua raprresentazione dentro PaP, ma ha echi in vari ambienti che si dichiarano marxisti leninisti. Potremmo chiamarla la linea del “classe contro classe” del 21esimo secolo, più o meno come quella del KKE in Grecia: conta solo la lotta per la costruzione del socialismo, qualunque ragionamento sull’UE è un ragionamento su una sovrastruttura, l’uscita dall’UE in ogni caso non porterebbe al socialismo quindi non è di interesse. (Ci sarebbe la quarta, quelli innamorati di Salvini e Di Maio, ma stendiamo un velo pietoso su questi ex compagni).

A me pare che la prima, pur parlando di irriformabilità e rottura, confermi la linea Tsipras: andiamo al governo in tanti paesi europei fino a quando abbiamo la massa critica per riformare l’UE. Non mi dilungo su questa.

Seconda linea: a me pare una linea che ci permette di agire, oggi, in Italia, nella frammentazione delle classi popolari.
Alcuni dei motivi li ho già detti nell’articoli, provo a elaborare di nuove

Questioni di prospettiva

  1. Perché è una linea che nomina un nemico identificabile, sarà banale, ma senza un nemico non si aggrega nulla. Le classi popolari che sono state disgregate e hanno un livello bassissimo di coscienza, se non nessun livello, hanno bisogno di vedere un collegamento tra le proprie condizioni di vita e il nemico.
  2. Perché è una linea che nomina un’alternativa internazionalista. L’area euromediterranea divide immediatamente il campo rispetto a Salvini. Ma anche, per dire, risptto a Calenda che dice che l’alternativa è tra Europa e Africa.
  3. Perché nascondere la testa sotto la sabbia negli ultimi anni ci ha solo fatto male. Da una parte abbiamo perso compagni verso l’europeismo. Dall’altra verso ogni possibile tendenza di follia para nazionalista.
  4. Perché una rottura dell’Unione è una possibilità, magari non quella più probabile, ma può succedere. Più probabili sono cambiamenti importanti nell’architettura dell’Unione (Europa a più velocità, etc etc). Chiaramente non siamo nella posizione, ne ora ne tra sul medio periodo di governare questi processi, in compenso siamo nella posizione per farci travolgere da questi processi. Non credo che limitarsi a dire “l’Europa così com’è non va” sia abbastanza. In questo senso, basta vedere quello che sta succedendo nel Regno Unito e il totale travolgimento di questo tipo di posizioni all’interno della Brexit. Questo ovviamente non significa che la Brexit è un processo progressivo, significa che chi ha provato a fare lo scoglio che resiste alla marea, si è rivelato invece un rottame in balia delle correnti.

Questioni di contingenza

  • L’elettorato è arretrato, ma non è composto da scemi. Hanno visto perfettamente cos’è successo in Grecia, hanno visto cosa succede quando si promette insieme di fare il bene del popolo e di mantenere la prospettiva europea. Non è un caso se la corsa delle sinistre radicali si è interrotta dopo la capitolazione di Tsipras. Forse riprende a muoversi ora, su altri binari.
  • Non siamo isolazionisti, ci sono forze europee a cui ci stiamo collegando che hanno la possibilità di contare qualcosa nei processi nazionali e internazionali. Legarci a loro ci dà la possibilità di crescere. Attenzione: non per l’idea sciocca che facciamo gli amici di Melenchon quindi avremo grande visibilità, ma perché ci permette di stare attaccati a dei movimenti reali che, in quanto tali, devono fare i conti con la realtà. Come noi, in Francia, Spagna, Portogallo e così via devono avere a che fare con classi popolari frammentate di ricomporre, stare con chi prova a fare questo processo di ricomposizione ci serve per crescere politicamente al nostro interno.
  • La Crisi Mattarella ci pone di fronte a un fatto: i trattati europei, da domenica scorsa, sono fonti di diritto pari alla nostra Costituzione e, anzi, la stessa idea di mettere in discussione i trattati deve essere trattata come eversiva. Aldilà della discussione in punta di diritto, questo è un elemento che ora entra prepotentemente nella percezione popolare e ci rimane.

 

 

Niger, l’imperialismo di Natale

Niger, l’imperialismo di Natale

Scritto insieme ad Alessandro Pascale, pubblicato su La Città Futura

Gentiloni annuncia l’intervento nel Sahel a fianco della Francia di Macron.

 

Spostare 470 militari e 150 mezzi italiani dall’Iraq alle zone interne del Niger, annunciarlo alla vigilia di Natale, far contento Macron e ridurre al minimo l’impatto sull’opinione pubblica.

Cosa andranno a fare i militari italiani in Niger?

Ufficialmente addestreranno le forze armate locali contro i jihadisti e contro i trafficanti di esseri umani. Sembrerebbe che non ci sia nulla di più nobile, aiutare Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger contro i referenti locali di Al Qaeda e combattere chi lucra sulla pelle dei migranti. Ovviamente il quadretto di Natale assume tinte molto più fosche quando si comincia a considerare che questa operazione si mette in continuità con la presenza di migliaia di militari francesi che da sempre praticano giochi imperialisti nell’area.

La grandeur di Parigi non è mai venuta meno nelle ex colonie africane, in particolare col conflitto di prossimità contro la Libia, fino all’esplosione del 2011 che ha condotto al disastro che conosciamo con lo smembramento dello stato libico in bande rivali. Anche allora, l’Italia di Berlusconi partecipò all’intervento militare. Dopo il clown di Arcore, anche Monti, Letta, Renzi e Gentiloni non hanno mai messo in dubbio per un momento la presenza del nostro paese nelle manovre africane. Su questo, come su altri temi sostanziali, le destre e il centrosinistra si sono trovati pienamente concordi, mostrandosi come due facce della stessa medaglia.

Una missione costosa

Come già detto, nell’area del Sahel sono già di stanza 5000 militari francesi e un numero non meglio precisato di poco pubblicizzati militari statunitensi. In totale il costo di un anno di missione dovrebbe aggirarsi attorno ai 500 milioni di euro, facile capire perché Parigi voglia suddividere i costi tra gli alleati, sia quelli che invieranno truppe sul campo sia quelli che si limiteranno a finanziare.

Tra i paesi finanziatori troviamo anche il gruppo di Visegard, ovvero Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. I quattro paesi guidati da forze destrorse euroscettiche riscoprono infatti la gioia di collaborare con Macron e Merkel quando si tratta di intervenire in Africa.

Una missione di dubbia utilità

L’utilità “anti terrorismo” e “anti schiavisti” di questa missione è talmente dubbia che anche AnalisiDifesa segnala dubbi e pericoli. Secondo il sito, che tutto è tranne che anti imperialista, i flussi dei migranti potranno aggirare facilmente i punti di presidio in cui si insedieranno i militari italiani. Ovviamente la ricetta di AnalisiDifesa è “più imperialismo”: prendere direttamente il controllo delle coste libiche da cui partono le navi. Da parte nostra non possiamo che alzare la bandiera del “nessun imperialismo!”, visto che sappiamo bene che sono proprio questi interventi, uniti alle speculazioni finanziarie e al controllo economico-politico più o meno diretto dei governi africani praticato dalle potenze occidentali, ad alimentare e riprodurre all’infinito le cause delle migrazioni.

Gli interessi imperialisti

Quali sono dunque gli interessi in gioco? Per il nostro paese, pochi, almeno per ora. Per la Francia, come già detto, si tratta di un’area in cui ha sempre manovrato i governi locali e fomentato guerre di prossimità. Proprio il Niger fornisce un esempio lampante: è del 2010 l’ultimo golpe militare che ha posto un termine temporaneo a decenni di dittature e governi neoliberisti che hanno svenduto il Paese, che è produttore del 7,5% di uranio al mondo, in gran parte estratto da Areva, colosso francese nel campo dell’energia, di proprietà statale. Areva è stata coinvolta in un grosso scandalo con l’accusa di aver inferto alle casse dello stato del Niger un ingente danno a causa di un contratto da centinaia di milioni di dollari. La commissione d’inchiesta del parlamento del Niger ha riconosciuto la responsabilità di Areva ma ha assolto tutti i politici locali, tra le proteste dell’opposizione e dei giornali. Un’inchiesta parallela è ancora in corso in Francia. Non si può dimenticare che dagli anni ’90 del secolo scorso è rimasta latente una guerriglia con le popolazioni ribelli Tuareg dislocate nelle regioni settentrionali del Paese, che mettono a rischio la sicurezza di alcuni impianti estrattivi.

Non sono mancati inoltre tentativi di golpe anche recenti (2011) verso il Presidente Mahamadou Issoufou, leader del Partito Nigerino per la Democrazia e il Socialismo e a lungo principale oppositore dei vari burattini filo-francesi. Probabilmente proprio il rischio di essere assassinato solo pochi mesi dopo l’elezione ha convinto Issoufou a continuare la collaborazione con le potenze occidentali, evitando una sfida aperta, ma proseguendo nella diversificazione degli interessi commerciali, che vedono sempre più importante la presenza della Cina sia nel settore petrolifero che in quello dell’uranio. Il sempre maggiore peso della Cina nella regione è un dato strutturale, dovuto ad una cooperazione economica effettiva che consente lo sviluppo di infrastrutture e di servizi sociali finora mai concessi dal monopolio imperialista francese. Il rischio è per il Niger che il Paese possa essere presto o tardi attaccato e destabilizzato dall’Occidente. In tal senso accogliere nella regione truppe militari occidentali per combattere miliziani islamici provenienti dalla Libia rischia di essere un enorme cavallo di Troia per il governo socialdemocratico interessato evidentemente a favorire invece la concorrenza commerciale.

L’italia e le reazioni politiche

Come abbiamo visto, la parte del leone in questa missione è della Francia, ma non possiamo adagiarci sull’immagine dell’Italia povera vittima dell’attivismo di Parigi. La stessa presenza sul campo può essere un preludio per la presenza di capitali italiani nel campo estrattivo del Niger, che ha grosse potenzialità di sviluppo con l’oro, il petrolio e il carbone.

Molto più a sud, sul delta del fiume Niger, in Nigeria, l’ENI è uno degli attori principali, tanto che insieme alla Shell è al centro di un processo al tribunale di Milano. Le due compagnie sono accusate di una maxi tangente da un miliardo e trecento milioni di dollari. In generale però continua l’avanzata trionfale dell’ENI in Africa, operando già anche in Algeria, Libia, Tunisia, Egitto, Kenya, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico, Sudafrica. Basti ricordare come nel 2016 l’Italia è stata il maggiore investitore europeo in Africa con circa 12 miliardi di euro, terzo partner complessivo sul continente africano dopo Cina ed Emirati Arabi. Si può constatare come l’Italia stia cercando di guadagnarsi un peso politico-militare che proceda di pari passo con il peso economico acquisito, oppure che stia cercando di entrare nelle grazie del Governo nigerino per acquisire accordi sul petrolio locale.

Quali sono state le reazioni politiche in Italia all’annuncio di Gentiloni? Il PC ha parlato esplicitamente di “intervento imperialista” teso a “difendere i veri interessi delle grandi compagnie energetiche e minerarie”. Il portavoce di Eurostop Giorgio Cremaschi, tra i leader di “Potere al Popolo”, denuncia il “natale di guerra coloniale al servizio di Macron”. Marcon e Civati, parlando a nome di Sinistra Italiana-Possibile polemizzano per le modalità procedurali e manifestano contrarietà a quella che si prefigura come una “missione di guerra” che “rischia di prestarsi alla violazione dei diritti umani di tante persone perseguitate, che cercando di fuggire dalle zone di conflitto”. Non risultano prese di posizioni da parte di Grasso e da parte dei Democratici e Progressisti di D’Alema.

Ancora tra gli aderenti a Potere al Popolo, la responsabile esteri del PCI Giusi Greta Di Cristina esprime la contrarietà del suo partito “verso un intervento imperialista che viola i nostri principi costituzionali e dedica ad improbabili imprese militari denaro pubblico che potrebbe essere impiegato per bisogni interni del Paese”. Il segretario del PRC Acerbo considera l’intervento in Libia “una guerra neocoloniale” e sfida Grasso e 5 Stelle a prendere posizione.

Il 2018 elettorale in Europa

Il 2018 elettorale in Europa

Pubblicato su La Città Futura

Attraverso l’Europa un unico elemento comune: avanza la destra estrema.

CIPRO – Il primo importante giorno elettorale sarà il 28 Gennaio, con le elezioni presidenziali a Cipro. Il tema principale delle elezioni sarà il processo di pace con la Turchia che occupa il nord dell’isola, interrotto a Luglio 2017. Il presidente uscente conservatore Anastasiades è dato favorito dai sondaggi tra il 27 e il 33%. Anstasiades intende riprendere i colloqui all’interno della proposta avanzata dall’ONU per la costruzione di una repubblica federale tra il nord e il sud, senza truppe straniere e senza prerogative d’intervento da parte di altri stati.

Probabilmente Anastasiades andrà al ballottagio contro uno dei principali partiti d’opposizione: o Papadopoulos del partito nazionalista DIKO – che accusa il presidente uscente di aver fatto troppo concessioni ai turchi – o l’indipendente Malas sostenuto dai comunisti di AKEL – che hanno in maniera sofferta deciso di appoggiare il piano ONU come unica soluzione praticabile per una pace gestita dai ciprioti senza ingerenze esterne. Se Malas non dovesse andare al ballottaggio, sarebbe la prima volta dagli anni ’70 in cui il candidato dei comunisti non arriverebbe almeno al secondo turno.

Tra i candidati minori anche Lillikas, ex membro di AKEL che si presenta ora su posizioni populiste e Christou, candidato per il partito neonazista ELAM – legato ai greci di Alba Dorata. Dopo essere riusciti a vincere dei seggi in parlamento alle elezioni del 2016, i neonazisti si approcciano alle presidenziali segnalati nei sondaggi al 3%.

Il vincitore delle elezioni sarà Presidente della Repubblica e Capo del Governo.

FINLANDIA – Sempre il 28 gennaio si terranno le elezioni presidenziali – molto meno drammatiche – in Finlandia. Con ogni probabilità saranno vinte con ampissimo margine dal presidente uscente Niinistö, liberale e conservatore che correrà da indipendente nonostante una carriera intera all’interno della Coalizione Nazionale. L’Alleanza di Sinistra, membro del Partito della Sinistra Europea, presenta come candidata l’eurodeputata Merja Kyllönen. Il più piccolo Partito Comunista di Finlandia – anch’esso membro della Sinistra Europea ma su posizioni euroscettiche – non presenterà un proprio candidato.

Il Presidente finlandese agisce da capo dello stato e ha funzioni per lo più burocratiche.

UNGHERIA – Il grande appuntamento successivo sono le elezioni parlamentari in Ungheria, che si terranno a maggio. Il nazionalista Orban per ora può dormire sonni tranquilli, il suo partito FIDESZ (che nonostante le posizioni estremiste continua a collaborare col Partito Popolare Europeo di Angela Merkel) dovrebbe riconfermarsi ben oltre il 40% dei voti mentre il secondo posto dovrebbe essere ancora dei fascisti dello JOBBIK, con oltre il 20%.

Nonostante la sconfitta nel referendum sull’immigrazione, Orban e i suoi camerati non sono per nulla insidiati dalle opposizioni “di sinistra”: la coalizione tra socialdemocratici e liberali si è frantumata. Dato il sistema elettorale, la differenza tra il primo partito e le opposizioni garantirà un’ampia maggioranza autonoma ad Orban. L’unico dubbio è se Orban avrà bisogno dei voti di JOBBIK per avere i due terzi dei seggi necessari per riformare ulteriormente la costituzione.

SVEZIA – A settembre si terranno le elezioni generali in Svezia. Il paese è attualmente guidato da un governo di centrosinistra, formato da socialdemocratici (S) ed ecologisti (MP), con l’appoggio esterno dei liberali conservatori del Partito Moderato (M). Il Partito della Sinistra (V, membro dell’Alleanza della Sinistra Verde Nordica) è invece all’opposizione. Per le sue posizioni euroscettiche il Partito della Sinistra è escluso dai possibili interlocutori di governo dal centrosinistra.

Rispetto alle ultime elezioni, i sondaggi segnalano la flessione dei socialdemocratici di governo e di Iniziativa Femminista, gruppo che si è separato dal Partito della Sinistra per andare verso l’area socialdemocratica. Risultano invece in ascesa il Partito della Sinistra (che potrebbe tornare attorno all’8%) e gli Svedesi Democratici, il partito di estrema destra che su posizioni social-nazionaliste (welfare solo per gli svedesi) viene segnalato tra il 15 e il 23%

Zeman, il trasformitsta della Repubblica Ceca

Zeman, il trasformitsta della Repubblica Ceca

pubblicato su http://www.lacittafutura.it

Il presidente uscente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, andrà al ballottaggio contro lo sfidante Jiri Drahos. Il primo turno, svolto il 12-13 gennaio, ha visto Zeman in ampio vantaggio col 38,57% dei voti, Drahos insegue al 26,6%. Il vantaggio del primo turno potrebbe non bastare a Zeman, su Drahos potrebbero convergere i voti di tutti gli altri candidati. O almeno, questa è la speranza di molti media che vorrebbero trasformare il ballottaggio in un referendum contro le posizione filo russe di Zeman.

Zeman, carriera da trasformista

La carriera politica di Milos Zeman è iniziata in piena epoca socialista. Sostenitore delle riforme di Dubcek, il giovane Zeman viene espulso dal Partito Comunista in seguito all’intervento militare sovietico. Durante gli anni ‘80 Zeman comincia ad acquisire visibilità come critico del governo comunista, notorietà che sfrutterà per diventare un membro di primo piano del ricreato partito socialdemocratico CSSD, di cui sarà dirigente di primo piano e con cui sarà capo del governo tra il 1998 e il 2001. La sconfitte nelle lotte interne al CSSD lo porta a fondare il Partito dei Diritti Civili (SPO), mantenendo le posizioni economiche ma abbandonando il filo atlantismo e il sostegno all’Unione Europea tipici degli altri partiti della socialdemocrazia europea. L’SPO non otterrà mai grandi risultati elettorali, se non proprio alle elezioni presidenziali.

L’elezione diretta del capo dello stato è stata introdotta nella Repubblica Ceca nel 2013, anno in cui Zeman riesce ad andare al secondo turno, e vincerlo, capitalizzando la crisi dei “partiti tradizionali”. In teoria il ruolo del Presidente è poco più che cerimoniale, Zeman però lo interpreta subito in maniera interventista, cerca di convincere i comunisti del KSCM a sostenere un governo guidato dai socialdemocratici e altre formazioni liberali. Il tentativo di formare un centrosinistra praghese fallì e da lì in poi Zeman ha giocato di sponda con altre formazioni tra cui ANO 2011, un partito molto simile al Movimento 5 Stelle nello stile populista che copre un programma liberista.

Gli Zeman d’Europa

I media europei catalogano oggi Zeman come un “populista di sinistra, filo russo e anti immigrati”. Data la carriera del personaggio, è lecito pensare che anche questa combinazione durerà poco. Il personaggio ha espresso posizioni roboanti (dal sostegno alle ronde armate di privati cittadini al sostegno alla destra polacca), ma non può essere solo una questione di quanto il personaggio in sé sia particolare.

La realtà è che nell’est dell’Europa queste dinamiche di trasformismo e scivolamento a destra sembrano essere endemiche. Mentre la politica dell’allargamento a est dell’Unione Europea prometteva stabilità, crescita economica e lo sviluppo di sistemi politici di stampo occidentale, la realtà era che i paesi post-socialisti hanno visto impennare le disuguaglianze e le promesse di benessere per tutti non sono state mantenute. Per di più, l’assorbimento all’orbita UE/NATO ha creato enormi tensioni nei paesi con rapporti forti e difficili con la Russia. Questo ha assunto la forma tragica della guerra in Ucraina, la forma del liberal-fascismo nella Ungheria di Orban. E, in molti paesi, assume la forma di una politica in perenne crisi, alla continua ricerca di personaggi e partiti a cui affidare il ruolo di uomini della provvidenza (russa o europeista, a seconda del caso) nella speranza che possano risolvere i disastri combinati da classi dirigenti profondamente inadeguate, spesso passate dalla sera alla mattina dall’obbedienza sovietica alla nuova fede nell’Unione Europea.

Il 26 e il 27 gennaio Zeman sarà sfidato nel ballottaggio dall’indipendente Drahos, un fisico con onoratissima carriera accademica entrato in politica a 60 anni per rappresentare l’europeismo. I media occidentali ne parleranno come uno scontro campale tra progresso europeo e medioevo russo. Più prosaicamente, sarà probabilmente un nuovo giro a vuoto dell’ingranaggio elettorale dei paesi dell’est.

Gros Koalition anche per l’Islanda: però è euroscettica

Gros Koalition anche per l’Islanda: però è euroscettica

Pubblicato su La Città Futura

La sinistra rosso-verde assume la guida del governo, e rompe coi suoi giovani.

A Berlino Angela Merkel contratta l’ennesima Gros Koalition tra cristiano-democratici e social democratici per continuare a gestire l’Unione Europea dell’austerità. Fuori dai confini dell’Unione, in Islanda, sembra il mondo al contrario: la sinistra euroscettica assume la guida di una grande coalizione di partiti anti europeisti.

Le elezioni

Dalla crisi finanziaria di dieci anni fa, l’Islanda non ha mai recuperato stabilità politica. Le elezioni del 2016 erano a loro volta elezioni anticipate innescate dallo scandalo dei Panama Papers. Questa volta la miccia è stato il tentativo di coprire uno scandalo sessuale che ha coinvolto amici della famiglia del primo ministro Benediktsson.

I tre partiti del governo uscente – tutti di area liberale – sono stati puniti dagli elettori. Il Partito dell’Indipendenza è sceso dal 29% al 25,2%, Rinascita dal 10,5% al 6,7%, Futuro Luminoso dal 7,2% all’1,2%.

Tra i partiti dell’opposizione, calano gli agrari del Partito del Progresso (dall’11,5% al 10,7%) e perde molte posizioni il Partito Pirata (dal 14,5% al 9,2%). Il nuovo Partito di Centro – formazione populista e conservatrice – ottiene un notevole 10,9%. L’Alleanza Socialdemocratica si risolleva un poco dopo il crollo verticale dell’anno scorso, passando dal 5,7% al 12,1%. Infine, la Sinistra – Movimento Verde sale dal 15,9% al 16,9%, un risultato comunque molto al di sotto delle aspettative suscitate dai sondaggi che davano la formazione rosso-verde ben oltre il 20%. È in effetti probabile che la mancata crescita dei rosso-verdi corrisponda alla ripresa dei socialdemocratici.

Il governo

A guidare il nuovo governo è la leader della Sinistra rosso-verde Katrín Jakobsdóttir, che ha ottenuto la guida della coalizione dopo il fallimento delle trattative guidate da Benediktsson, il quale a sua volta conserva la posizione chiave di Ministro delle Finanze. La “Gros Koalition” anti europeista è quindi formata dalla Sinistra, dal Partito del Progresso e dal Partito dell’Indipendenza. Oltre il Primo Ministro e la presidenza del Parlamento, la Sinistra ottiene anche il ministero dell’ambiente e la delega alla salute all’interno del ministero dello stato sociale.

Il Presidente della Confederazione del Lavoro Islandese Gylfi Arnbjörnsson si è espresso contro

Gli obiettivi dichiarati del nuovo governo sono la stabilità dell’economia, la riforma del sistema penale e un impegno sui temi ambientali che vada più a fondo di quanto previsto dagli Accordi di Parigi. Con tre formazioni euroscettiche al governo, e con l’indebolimento delle posizioni europeiste anche tra i partiti di opposizione, è molto improbabile che questo governo riapra le trattative per l’ingresso nell’Unione Europea.

La nascita del governo Jakobsdóttir non è stata indolore. Due deputati della Sinistra – Movimento Verde hanno votato contro la fiducia e la giovanile del partito si è schierata contro l’accordo di governo. Non è ancora chiaro se questo porterà a una scissione. Di fatto, il governo dispone di una maggioranza di 33 seggi su 63 ed è quindi molto probabile che la politica islandese rimanga instabile e che la legislatura si concluda con ulteriori elezioni anticipate.

https://www.lacittafutura.it/esteri/gros-koalition-anche-per-l-islanda-pero-e-euroscettica

Sinn Fein: finisce l’era di Gerry Adams

Il sottoscritto su La Città Futura

Sinn Fein: finisce l’era di Gerry Adams

In mezzo alle turbolenze politiche, il Sinn Fein cambia leader e punta al governo.

 

Nominalmente l’Irlanda ha superato la crisi economica, le proiezioni assegnano tassi di crescita del PIL superiori al 2%, disoccupazione in diminuzione, aumento delle ore lavorate. La crisi politica non sembra di andare di pari passo, con un governo di minoranza continuamente sottoposto a violenti scossoni e alla minaccia di elezioni anticipate.

Sinn Fein

Dietro i dati generalmente positivi dell’economia, però, si nascondono alcuni dati più preoccupanti. I tassi di disoccupazione, di disoccupazione giovanile e di disoccupazione di lungo corso sono scesi rispetto agli anni peggiori della crisi, rimanendo però molto più alti rispetto ai livelli pre-crisi.

La crisi politica

Le elezioni del 2016 hanno visto il tracollo della grande coalizione dell’austerità, tra i conservatori del Fine Gael e il Labour irlandese. Nonostante la sconfitta, il Fine Gael è riuscito a mantenere il controllo di un governo di minoranza grazie all’alleanza con alcuni parlamentari indipendenti e all’appoggio esterno dei “liberaldemocratici” (spostati sempre più a destra) del Fianna Fail. Il governo di minoranza di Enda Kenny è durato da Maggio 2016 a Giugno 2017, per poi essere sostituito dal governo di Leo Varadkar.

In questi giorni il governo Varadkar è in fibrillazione in seguito allo scandalo che ha coinvolto la vice-Presidente Fitzgerald a proposito della corruzione all’interno della polizia irlandese. Il Fianna Fail ha ottenuto le dimissioni di Fitzgerald, richieste anche dall’opposizione di sinistra, ma ormai tutti gli osservatori sono convinti che la legislatura sia vicina alla fine e che si andrà a nuove elezioni all’inizio del 2018.

La svolta del Sinn Fein

In questo contesto arriva la svolta del Sinn Fein, il partito nazionalista di sinistra. Lo storico leader Gerry Adams si è dimesso dalla presidenza del partito, lasciando la guida a Mary Lou McDonald. Un cambiamento di tattica politica e generazionale.

Adams ha vissuto in pieno la stagione della lotta armata, è stato in prigione, ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di pace e nella lunga marcia dei repubblicani dall’astensionismo fino al protagonismo nella vita politica. Quando, alla fine degli anni ’60, il Sinn Fein si è diviso tra l’ala marxista e l’ala nazionalista, Adams ha scelto convintamente i nazionalisti. In seguito, senza mai diventare marxista, Adams ha introdotto la questione di classe e le questioni sociali nella politica dei nazionalisti,si è alleato in Europa con la sinistra radicale, fino a guidare l’ascesa elettorale dell’ultimo decennio in cui il partito si è imposto come primo partito di opposizione all’austerità e ha accarezzato l’idea di diventare primo partito.

Sinn Fein

Le elezioni del 2016 hanno segnato un punto di svolta, nel “nuovo normale” europeo di bassa crescita economica e alta disoccupazione il Sinn Fein non ha le dimensioni per guidare un governo di sinistra. In più, la Brexit riapre le speranze di una riunificazione dell’Isola, con l’Irlanda del Nord che ha votato in maggioranza schiacciante per rimanere nell’Unione Europea. In più, le successive elezioni nordirlandesi hanno tolto per la prima volta la maggioranza ai partiti fedeli a Londra, risultando in uno stallo nella formazione del governo del Nord, tanto che la finanziaria non verrà discussa dall’Assemblea di Belfast ma dalla Camera di Londra.

Il congresso del Sinn Fein ha quindi deliberato la svolta: il Sinn Fein accetterà di governare come partito minore di una coalizione la Repubblica d’Irlanda, cercando di approfittare dello scontro tra Fianna Fail e Fine Gael. I sondaggi per ora segnalano un Sinn Fein in ascesa, che dal 13,8% delle ultime elezioni politiche potrebbe salire fino al 20%.

Certo, rimane da vedere se le urne daranno lo stesso risultato dei sondaggi, e rimane da vedere se il SF riuscirà a tenere insieme l’abbraccio all’Unione Europea in nome dell’Irlanda unita e la questione sociale.

https://www.lacittafutura.it/esteri/sinn-fein-finisce-l-era-di-gerry-adams.html

Dopo il 18 novembre: linee di politica estera a sinistra

Il sottoscritto sull’ultimo numero de La Città Futura

Dopo il 18 novembre: linee di politica estera a sinistra

Su Ue, Nato,america latina qual è la posizione delle sinistre (oltre a Eurostop, che si esprime da tempo) su questi temi nel post-Brancaccio?

Il fallimento del Brancaccio e l’assemblea lanciata dall’Ex Opg – Je So Pazzo hanno reso chiari quali sono i progetti che si presenteranno, o proveranno a presentarsi, alle prossime elezioni politiche. A “sinistra del PD” lavorano tre possibili liste: la riedizione bonsai del centrosinistra tra MdP, Possibile e Sinistra Italiana, la “lista popolare” che si prova a lanciare dopo l’assemblea al Teatro Italia e infine la bicicletta trotzkista annunciata da un articolo comune di Sinistra Classe Rivoluzione e del PCL.

Per quanto si tratti di processi in corso, è già possibile provare a capire quali saranno le linee di politica estera di queste formazioni. In particolare, per quanto riguarda il rapporto col “vincolo esterno” dell’Unione Europea, con la NATO e la visione sul Sud America, che negli anni è diventato una cartina tornasole dell’avvicinamento o allontanamento dalle “compatibilità del sistema”.

Il centrosinistra bonsai

L’alleanza D’Alema-Civati-Fratoianni non ha ancora una forma organizzativa e per ora la sua proposta politica consiste in un poco convincente tentativo di riproporsi come rappresentanti del lavoro e soprattutto di polemica con l’ex alleato Matteo Renzi. Poco o nulla è detto a proposito di ciò che accade oltre i confini italiani. Come abbiamo segnalato su La Città Futura, alcuni membri di MdP hanno provato a dispiegare qualche posizione vagamente più coraggiosa rispetto a quelle del PD, salvo annegarle nella fedeltà all’impianto pro Unione Europea e pro NATO.

Retoricamente, potrebbe bastare ricordare ciò che Edward Lutwak disse del leader Maximo: “qui a Washington ricordiamo D’Alema come l’unico premier italiano che ha combattuto da alleato al fianco degli Stati Uniti. Fin dall’inizio, senza cambiare idea e senza distinguo. Ci ricordiamo che è stato leale, fedele, serio e che non ha ceduto di un millimetro nonostante nel suo partito ci fosse una componente pacifista”.

Nella retorica dei nuovi DSc’è però almeno un riferimento programmatico elaborato: il programma di Italia Bene Comune, quando il centrosinistra era ancora guidato da Bersani. Nella Carta d’Intenti del centrosinistra – composto allora da PD e SEL – si leggeva che l’unico progetto possibile per l’Italia sarebbe stato quello europeo, da rilanciare, rafforzando la piattaforma dei “progressisti europei” (di fatto, il Partito del Socialismo Europeo). Secondo Italia Bene Comune, i due assunti europeisti dell’austerità e dell’equilibrio dei conti pubblici sono necessari benché non debbano diventare dei dogmi fini a se stessi. Infine, la soluzione era, ovviamente, “più Europa”.

Sul Sud America, infine, risuonano ancora le parole di Bersani che temeva che, in Italia, dopo Berlusconi sarebbe arrivato un Chavez. L’integrazione dei nuovi DS nella famiglia della socialdemocrazia europea mantiene ferma questa posizione, come dimostra l’assegnazione del Premio Sakharov per la libertà di espressione alla “opposizione democratica venezuelana”. Il premio è assegnato, di fatto, come accordo politico tra il gruppo europeo dei socialdemocratici e quello dei cristiano-democratici. Sarebbe interessante sapere cosa pensa di questo Sinistra Italiana, che ha aderito come osservatore al Partito della Sinistra Europea. D’altra parte, gli eurodeputati di Sinistra Italiana in realtà restano divisi in Europa: Curzio Maltese resta nel GUE/NGL (che contesta il Premio Sakharov), mentre Cofferati continua a lavorare nel gruppo socialdemocratico.

Dopo il Teatro Italia

L’insieme di forze che ha lanciato l’idea di una “lista popolare” deve ancora elaborare il suo programma. Quello che è sicuro, è che si gioca in tutt’altro campo rispetto a quello del nuovo centrosinistra. La maggior parte degli interventi si è concentrata sul conflitto tra capitale e lavoro, sulle vertenze e sulle lotte realmente esistenti in Italia. E poi, la discussione sul vincolo esterno dell’Unione Europea. Al Teatro Italia non si sono sentiti richiami a “più Europa”, “Europa dei popoli”, “Europa sociale”. Anzi, chi ha battuto sulla dimensione europea l’ha fatto per chiedere ancora più nettezza nella rottura con la gabbia dell’UE.

Una delle novità dell’assemblea al Teatro Italia è stata proprio la discussione aperta sul tema, a differenza delle innumerevoli altre “esperienza democratiche e partecipate” in cui le posizioni euro-critiche, anche le più timide, venivano relegate a una piccola minoranza da zittire agitando l’accusa di essere cripto-lepenisti.

I tremendi trascorsi del centrosinistra come attuatore dell’atlantismo hanno lasciato il segno. Il D’Alema della guerra del Kosovo, il centrosinistra delle missioni in Afghanistan e Iraq sono – negli interventi al Teatro Italia e nelle discussioni successive – tra i più pesanti motivi per cui non è neanche lontanamente immaginabile l’ennesimo accordo di bassa lega con la sinistra istituzionale.

Sul Sud America, le organizzazioni che hanno partecipato all’assemblea hanno una lunga storia di solidarietà con i governi bolivariani e in generale con le esperienze di sinistra di quei Paesi. L’unica organizzazione a fare eccezione su questo punto sembra essere Sinistra Anticapitalista, che ha sostenuto nell’ultimo periodo gruppi venezuelani di opposizione a Maduro.

La bicicletta

L’idea di una “lista rivoluzionaria” lanciata dalle due organizzazioni trotzkiste è in aperta polemica con il processo lanciato al Teatro Italia, che viene accusato di limitarsi a una linea “antiliberista” e riformista che non mette in discussione il vincolo esterno dell’Unione Europea. Critica ingenerosa, come abbiamo visto la discussione sul vincolo esterno esiste. Si tratta anche di una critica nuova per SCR e PCL. Basta tornare indietro al referendum inglese sulla permanenza del Regno Unito nell’UE e vedere le posizioni di allora. Entrambe le organizzazioni hanno sostenuto che la permanenza nell’UE era un falso problema e lanciavano la parola d’ordine degli stati uniti socialisti d’Europa. Per la verità, mentre SCR articolava un discorso più complesso sulle forze che hanno sostenuto la Brexit e riconosceva la natura in parte classista del voto, il PCL addossava la lotta contro l’UE e contro l’Unione Monetaria alla destra di Farage, Le Pen e Salvini.

Dalla “lista rivoluzionaria” è stato criticato anche l’accento populista dell’assemblea del 18 novembre, sostenendo, letteralmente, che siano state “le concezioni di Laclau, che enormi disastri hanno prodotto in America Latina facendo salire la classe lavoratrice sul carro dei movimenti populisti borghesi”. Una liquidazione così brutale dell’esperienza sudamericana stupisce, soprattutto da parte di SCR, che fa parte della Tendenza Marxista Internazionale che, pur con molte distinzioni e criticità, continua a essere parte attiva nel governo bolivariano del Venezuela.

Riunire la classe, costruire il blocco sociale, lanciare l’alternativa

Editoriale del n. 153 de La Città Futura, a firma mia e di altre compagne e compagni (elenco completo in fondo all’articolo)

Riunire la classe, costruire il blocco sociale, lanciare l’alternativa

Dopo il fallimento del Brancaccio, costruire un’alternativa delle classi popolari.

“L’unità senza principi è una falsa unità”
Ernesto “Che” Guevara

1 Brancaccio: cronaca di un fallimento annunciato

Il fallimento del percorso del Brancaccio segna un punto di rottura nello scenario delle possibili prospettive per la lotta di classe del nostro Paese. Da svariati anni, a ogni turno elettorale, nazionale o non, siamo stati costretti ad assistere a dinamiche sempre meno convincenti. Partiti che portano nel loro nome riferimenti espliciti alla lotta di classe e al comunismo si sono piegati a processi elettoralistici lanciati da realtà e in contesti totalmente refrattari alle esperienze più conflittuali del Paese, senza nessun collegamento rispetto alle contraddizioni che i lavoratori, i disoccupati, gli studenti e tutti gli sfruttati vivono quotidianamente sulla propria pelle.

Ripensando alle esperienze di “Cambiare si può”, “Rivoluzione civile”, “L’altra Europa” e alla miriade di proposte regionali e comunali, non era difficile prevedere che l’Assemblea del Brancaccio sarebbe naufragata appena i nodi fossero venuti al pettine. Le aspettative suscitate sono state spezzate già durante le fasi della prima assemblea con l’estromissione dei compagni di “Je so’ pazzo e l’allontanamento dei rappresentanti del PCI, per lasciare posto ai vari D’Alema e Bersani. Nei fatti, la prima parola d’ordine, riecheggiata nelle parole dei “garanti” dell’assemblea del 18 giugno, è stata la “costruzione di un’unica lista a sinistra alle prossime elezioni politiche”. Elettoralismo e unitarismo senza contenuti contro cui, oggi possiamo dirlo, poco hanno potuto fare quelle voci dissenzienti che provavano ad articolare un ragionamento radicale, in quella occasione come nei momenti di confronto locali successivi. Chi ancora poteva essere onestamente convinto delle potenzialità di questo percorso lo era perché ancora una volta raggirato dalla retorica della “sinistra unita” sbandierata per sommi capi dagli intellettuali di turno ed in maniera del tutto autoreferenziale e subalterna alla sinistra liberale, imperialista e settaria.

Sì, settaria: preferendo l’opportunismo elettoralistico alla costruzione di una reale prospettiva che a partire dai conflitti e dalle forze sane della realtà sociale e politica sapesse guardare alle elezioni come vera forma di rappresentanza, si escludevano dal proprio bacino di influenza milioni di cittadini, in primo luogo lavoratori e giovani studenti, che rifiutano la politica perché essa non è capace di rappresentarli. Rigettando le realtà conflittuali, le esperienze di lotta e le organizzazioni che ogni giorno combattono contro le ingiustizie del capitalismo, si perfezionava una precisa volontà di epurare le posizioni di rottura dal dibattito e dalla costruzione della lista.

In questo risiedono, in primo luogo, le ragioni del fallimento del Brancaccio: la proposta era, in origine e per sua natura, una proposta elettoralistica e opportunista che non aveva interesse a rappresentare e a dare voce e soggettività politica a chi ogni giorno è vittima del capitale. La successiva pantomima che ha coinvolto il Movimento dei Progressisti e Democratici non ha causato di per sé il fallimento del Brancaccio, bensì ne ha concretizzato le contraddizioni che le componenti più avanzate avevano fin dal principio denunciato: a cominciare dalla compromissione di MdP con tutte le politiche neoliberiste, dall’appoggio ideologico alle riforme delle pensioni, alla cancellazione dell’articolo 18 e alla complessiva stretta dell’austerità perpetrata contro la classe lavoratrice. La precipitazione degli eventi, dovuta essenzialmente all’accordo col PD sui collegi elettorali e che ha visto coinvolte le forze moderate del Brancaccio (MdP, SI, Possibile), ha smascherato la realtà dei fatti.

Nel quadro desolante attuale, molti compagne e compagni hanno guardato con interesse a questo ennesimo tentativo di “unità della sinistra“. Una speranza mal riposta, ma assolutamente comprensibile. La realizzazione di questa aspettativa passa in primo luogo attraverso un differente modus operandi, che tragga consapevolezza dal fatto che le classi subalterne non possono trarre reali benefici da accordi fatti a tavolino fra le segrete stanze del primo soggetto che si proclami genericamente di sinistra. Noi non facciamo politica per placare la nostra delusione. Noi facciamo politica per organizzare le classi popolari, per migliorare le nostre condizioni materiali e, in prospettiva, per costruire un’alternativa al capitalismo imperialista. Per questo, dobbiamo ripartire dalla dura realtà dei fatti.

2 Il mondo reale della classe

Nella realtà, in Italia, la classe lavoratrice è quella che ha di gran lunga subito maggiormente gli esiti peggiorativi delle riforme della scuola, dell’università, della sanità e del lavoro. Gli effetti della crisi capitalistica e delle guerre imperialiste con il loro strascico di flussi migratori, da un lato lasciano le classi subalterne sole davanti all’attacco della grande borghesia e dall’altro le danno in pasto ai rinascenti gruppi neofascisti di chiara matrice razzista e xenofoba, che, come sempre, fanno dell’insicurezza sociale un grimaldello a protezione delle classi dominanti.

Dopo trent’anni di politiche neoliberiste di contrazione salariale, liberalizzazioni e precarizzazione, le politiche di austerità sono diventate il “nuovo normale” in nome dell’uscita dalla crisi che ormai ha assunto durata decennale e strutturale. Dopo un decennio di crisi non andiamo verso anni di espansione: l’austerità, la disoccupazione di massa, la perdita di capacità produttiva sono diventate anch’esse strutturali. I cambiamenti nella struttura economica sono stati sigillati dalle riforme dei governi neoliberisti susseguitisi sotto casacche di centro-destra e centro-sinistra: una scuola pubblica dell’obbligo indirizzata a una segregazione classista; la diminuzione del 10% delle iscrizioni all’università che significano l’espulsione di interi settori popolari dall’istruzione superiore; la liberalizzazione dei rapporti di lavoro e l’assalto alle strutture sindacali che rifiutano di diventare puri fornitori di servizi fiscali ed interpretano il proprio ruolo di conflitto e organizzazione dei lavoratori; la repressione delle conflittualità sociali e la criminalizzazione dei flussi migratori.

Un nuovo ordine, suggellato e protetto dalle istituzioni dell’Unione Europea: istituzioni in cui non solo trovano origine e primo sostegno tutte le politiche di impoverimento dei popoli europei, ma che hanno anche favorito un processo di concentrazione, potenziamento e liberazione dei capitali, in particolare finanziari. Istituzioni tutte conniventi con gli impulsi imperialistici e guerrafondai del XXI secolo, come in Libia così in Ucraina. Istituzioni che, non in grado di dare risposte ai bisogni sociali delle loro popolazioni, sono ancor meno capaci di curare i bisogni di accoglienza delle popolazioni in fuga dalla guerra e dalla miseria, spesso frutto dell’imperialismo degli stessi Stati Europei. Questi uomini e donne diventano così nuovo soggetto da utilizzare per gli interessi capitalistici nazionali, nuova carne da cannone per la criminalità, il lavoro nero, lo sfruttamento più bieco. Ma diventano, anche, merce di scambio e fonte di profitto per i governi con cui le istituzioni Europee stringono patti per il regolamento dei flussi, dando loro ossigeno finanziario e copertura diplomatica. A Est finanziamo governi carnefici, a Sud regimi di prigionia schiavistica. È questo il nuovo volto dell’imperialismo, oggi ancor più sviluppato rispetto a 100 anni fa quando il suo potere venne incrinato per la prima volta nella Storia dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Siamo, ormai, in un nuovo assetto sociale e politico, tutto orientato a radere al suolo diritti economici e sociali a livello di massa, a creare nuove e più acute contraddizioni tra soggetti sociali: frammentati, disorientati, in lotta per la sopravvivenza materiale, i pezzi sparsi – antichi e nuovi, italiani e stranieri – della nostra classe di riferimento hanno sempre meno armi politiche, sociali e culturali di difesa. Mentre starebbe il momento di passare all’attacco.

3 Lotte di classe in Italia

Eppure, anche in questo contesto di incapacità organizzativa, alcuni elementi di contrattacco ci sono. Si evidenziano elementi di conflittualità, frammentata e a volte localistica, che vanno dall’esperienza ormai lunga più di vent’anni della Valsusa ai movimenti per il diritto alla casa, passando per le lotte degli operai della logistica, della ex Almaviva, delle tante rivendicazioni sindacali sparse in tutto il paese, fino alle lotte dei braccianti e alle grandi vertenze dell’Alitalia e dell’Ilva di Taranto. Alcune di queste lotte hanno per forza di cose caratteristiche difensive e temporanee, altre riescono già a darsi prospettive e forme organizzative più larghe. In particolare, il tentativo dei sindacati di base di declinare in ambito nazionale le vertenzialità diffuse e trasformarle in uno sciopero nazionale è riuscito, al netto delle adesioni parziali delle altre organizzazioni di classe. Le giornate del 27 ottobre e del 10 novembre, in cui sono stati proclamati scioperi con piattaforme rivendicative avanzate, hanno visto un’importante fetta del mondo operaio e salariato fermarsi.

A dimostrare che ci troviamo in una fase in cui i semi di un esteso e organizzato conflitto possono essere gettati, sta il fatto che lotta sindacale e lotta sociale sembrano finalmente intrecciarsi profondamente: non perchè organizzazioni sindacali provano a sostituirsi ad altre organizzazioni sociali o politiche, ma perché i sindacati più conflittuali acquisiscono coscienza per estendere le proprie rivendicazioni oltre la sfera della vertenzialità e le politicizzano, così come è avvenuto con la manifestazione di sabato 11 novembre a Roma. Indetta da Eurostop con un fondamentale apporto organizzativo di USB, quella mobilitazione è diventata poi catalizzatore di una larghissima fetta del “No sociale” al referendum costituzionale. È la dimostrazione che ancora esiste e si organizza un pezzo di società che vuole cambiare lo stato di cose attuale agendo sui rapporti di forza, più che affidando la rappresentanza parlamentare al consumato circo del centro-sinistra. Il successo del corteo non si è misurato solo nei numeri ma anche nella sua composizione, che mostra quali siano i settori sociali più avanzati. La necessità di coniugare organizzazione e lotta è emersa contemporaneamente anche nella manifestazione nazionale del PC e del FGC di sabato 11 novembre. Oltre a esplicitare rivendicazioni attuali per il lavoro e per la pace, essa ha segnalato l’urgente bisogno di una proposta di fase comunista, sebbene non possa essere sottovalutato che questa urgenza rimanga tuttora frammentata, da connettere necessariamente alle mobilitazioni più larghe.

4 Proposte politiche per il blocco sociale

Il fallimento del Brancaccio rappresenta oggi un’opportunità per la lotta di classe nel nostro Paese.

L’appello lanciato dai compagni dellEx OPG “Je so’ Pazzo” per un’assemblea popolare il 18 Novembre ci sembra porre finalmente un buon punto di partenza per la costruzione di uno spazio pubblico in cui si possa costruire un fronte utile alle classi popolari tra le realtà autorganizzate di lotta, di conflitto e di mutualismo e le organizzazioni di classe attive a livello nazionale, come i partiti comunisti, i sindacati di base e i soggetti promotori di Eurostop. Siamo consapevoli delle differenze – teoriche e pratiche – tra le diverse realtà che hanno aderito all’assemblea di Sabato 18 Novembre, ma pensiamo che sia una possibilità di aprire un confronto fra quanti elaborano un’analisi e una proposta di classe alternativa a quella del capitalismo e pensiamo che debba essere un passo in un percorso più lungo.

Questa apertura si presenta vicinissima alla prossima scadenza elettorale nazionale. Eppure, per essere veramente efficace nel restituire soggettività e protagonismo alle classi subalterne, e per evitare qualunque appetito opportunistico, questo percorso deve provare a guardare oltre una lista elettorale a rischio di autoreferenzialità: si deve porre la prospettiva di lungo termine della ricostruzione di un blocco sociale. In quella assemblea dovremo, tutti, partire da un confronto di ampio respiro su temi, programmi e prospettive per rilanciare la lotta di classe in questo Paese. Con questo spirito, dobbiamo mirare ad un fronte unitario tra i partiti comunisti, i sindacati conflittuali, i soggetti promotori di Eurostop, i collettivi e le realtà autorganizzate, i movimenti sociali. Il blocco sociale si riunisce intorno ad alcune proposte su come organizzare i soggetti subalterni e su quale programma di lotta dar loro. Noi facciamo le nostre proposte: dobbiamo puntare alla ricomposizione delle lotte nei luoghi di lavoro, che parte dall’analisi della composizione della classe sociale di riferimento, elemento essenziale per qualsiasi presupposto di rappresentanza. Dobbiamo puntare a stimolare la presa di coscienza dei soggetti sfruttati che non sono in lotta o che non hanno voce, come gli immigrati. Il programma dovrà essere di seria modifica radicale dei rapporti di forze sociali ed economici: partendo dal tema delle nazionalizzazioni e del possesso dei mezzi di produzione, della pianificazione economica, della restituzione dei diritti allo studio, alla salute e all’abitare. In tutto questo, non potrà non avere un ruolo la questione dell’uscita dalla Nato, dalle strutture di guerra imperialista, e dall’Unione Monetaria e auspichiamo anche che si apra una discussione seria e scevra da pregiudizi e accuse strumentali di sovranismo sulla permanenza stessa nell’Unione Europea. Questi sono gli elementi che riteniamo possano essere il collante di un nuovo fronte politico, sindacale e sociale, che sappia, in prospettiva, entrare nelle contraddizioni della società dando rappresentanza a operai, studenti, immigrati, tentando poi di proiettarli verso la guida del Paese.

Autori: Angelo Balzarani, Joseph Condello, Marco Nebuloni, Alessandro Pascale, Chiara Pollio, Paolo Rizzi, Emanuele Salvati, Marcello Simonetta, Lia Valentini

Apparso originariamente su https://www.lacittafutura.it/editoriali/riunire-la-classe-costruire-il-blocco-sociale-lanciare-l-alternativa.html

La Nuova Era cinese

Il sottoscritto per La Città Futura

La Nuova Era cinese – Parte I : il potere di Xi Jinping

L’idea che la Cina stia tornando al potere assoluto assomiglia più all’incubo di alcuni occidentali che alla realtà dei fatti.

Si è concluso il 19esimo congresso del Partito Comunista Cinese. Come è stato riportato da tutti i media, il Segretario Generale Xi Jinping ha rafforzato la sua posizione, inserendo il suo nome nella Costituzione del Partito e – apparentemente – riempiendo gli organi dirigenti di alleati. La questione del potere personale non è però l’unica questione, anzi! La “nuova era” sancita dal congresso porta con sé importanti novità sul piano economico e sociale, di cui comincerò a trattare settimana prossima.

Il nuovo Mao? Neanche per sogno

L’idea che la Cina stia tornando al potere assoluto di una sola persona, assomiglia più all’incubo di alcuni occidentali che alla realtà dei fatti. Chiaramente Xi Jinping ha centralizzato nelle sue mani molti più poteri rispetto al predecessore Hu Jintao – che era invece conforme alla “direzione collettiva”.

La Costituzione del PCC recita ora che il Partito assume come ideologia guida: “il Marxismo-Leninismo, il Pensiero di Mao Zedong, la Teoria di Deng Xiaoping, l’importante pensiero delle Tre Rappresentanze, la Visione Scientifica dello Sviluppo e il Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era”. L’aggiunta del nome di Xi nella Costituzione del PCC ha prodotto un coro globale per cui Xi sarebbe il leader più potente dai tempi di Mao, se non addirittura come Mao. L’idea del “nuovo Mao” non è però da prendere sul serio. Mao e Deng sono stati leader in grado di rivoltare il Paese a loro piacimento, al di fuori delle strutture del Partito, contro le strutture del Partito. Basta ricordare che Mao lanciò la Rivoluzione Culturale quando non aveva nessuna carica. Basta pensare che durante il famoso “viaggio a sud” di Deng che rilanciato le riforme di mercato all’inizio degli anni ’90, egli ricopriva l’unica carica di Presidente dell’Associazione degli Scacchisti. Il tipo di potere esercitato dai grandi leader della generazione dei rivoluzionari non può essere paragonato in alcuna maniera a quella dei successori.

cina

Come già detto, ha invece più senso paragonare Xi agli ultimi segretari. Entrambi i precedenti segretari hanno messo la loro elaborazione teorica nella Costituzione del PCC: Jiang Zemin con le Tre Rappresentanze che aprivano le porte del Partito anche alla borghesia, Hu Jintao con lo Sviluppo Scientifico. Se Hu non ha messo il proprio nome per convinzione nelle direzione collettiva, pare che Jiang non l’abbia messo per mancanza di un adeguato supporto nel Partito. Può essere quindi legittimo considerare Xi più potente di Jiang e Hu. Di sicuro non onnipotente come vorrebbero far passare molti media.

Dopo Xi? Ancora Xi?

A questo punto bisogna avvertire il lettore: tutte le letture degli equilibri di potere interni al PCC sono interpretazioni di segnali dati all’esterno, le reali dinamiche vengono ricostruite ex post.

La composizione del nuovo Comitato Permanente all’interno del Politburo – di fatto i sette uomini che assumono la responsabilità ultima delle decisioni politiche – sembra ora riportare una salda maggioranza di alleati del Segretario Xi Jinping, soprattutto non appaiono nomi di possibili successori, tutti i nuovi membri sono troppo vicini all’età del pensionamento. Non appaiono i due nomi considerati “papabili”: Chen Min’er, alleato di Xi e segretario del PCC nella turbolenta megalopoli di Chongqing, e Hu Chunhua, segretario della ricca Provincia del Guangdong e apparentemente alleato dell’ex Segretario Hu Jintao.

cina

Tutto questo è stato interpretato come un segnale che Xi sia pronto a rompere il limite di due mandati, limite obbligatorio per le cariche statali e consuetudinario per il Partito. Xi potrebbe mantenere la carica di Segretario del Partito e passare solo la carica di Presidente della Repubblica. Bisogna però dire tre cose:

  1. rimane del tutto possibile che un successore venga integrato successivamente nel Comitato Ristretto, non fa parte della consuetudine ma sarebbe una rottura della consuetudine minore rispetto a un terzo mandato;
  2. Xi non ha voluto – al contrario di quanto dicevano molte previsioni – infrangere la consuetudine dell’età pensionabile nemmeno per tenere all’interno del massimo organo del Partito Wang Qishan, responsabile dell’anticorruzione e apparentemente strettissimo alleato di Xi;
  3. al contrario di quanto riportano molti media, non è una consuetudine che il Segretario uscente si scelga il successore. Jiang Zemin dovette accettare il rivale Hu Jintao come successore, Hu Jintao dovette accettare Xi Jinping (allora considerato un uomo di mediazione) al posto del suo candidato preferito, Li Keqiang che ora ricopre la carica di Primo Ministro.

In questo articolo ho prestato attenzione nel segnalare le alleanze tra i vari leader cinesi come apparenti. Si tratta di una prudenza che sarebbe d’obbligo, ma spesso viene ignorata dagli osservatori in nome del sensazionalismo. Otto anni fa, durante il diciassettesimo Congresso che sanciva il secondo mandato di Hu Jintao, giravano analisi molto simili sul potere accumulato sulla persona del Segretario-Presidente e sulla fedeltà assoluta della dirigenza al leader. L’impegno reale di Hu sulla direzione collettiva – anche al prezzo di ritardare riforme necessarie, dicono i critici – e i conflitti col Primo Ministro Wen Jiabao sono cose che gli analisti hanno scoperto solo dopo la fine dell’amministrazione Hu-Wen.

Al di là dei giochi di potere in stile “House of Cards”, solo i fatti potranno dirci quale saranno le reali conseguenza del potere di Xi Jinping. Anche perché, per quanto potente, Xi non governa un paese immaginario, governa un Paese percorso da contraddizioni enormi, abitato da un miliardo e mezzo di persone a cui ha promesso una Nuova Era. Di questo, si parlerà la prossima settimana.

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La Nuova Era cinese – Parte II: la nuova contraddizione

Il PCC aggiorna la contraddizione principale su cui lavorare nei prossimi decenni.

La conclusione del diciannovesimo congresso del Partito Comunista Cinese ha lasciato una marea di commenti sul livello di potere personale raggiunto dal Segretario del PCC, “nucleo” della dirigenza e Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping.

Meno attenzione è stata dedicata al lungo rapporto politico con cui Xi ha aperto i lavori congressuali. Secondo la consuetudine degli ultimi decenni, il rapporto introduttivo è frutto di un lavoro di consenso all’interno del Partito che può durare più di un anno e che riflette la posizione collettiva della dirigenza.

Nel rapporti di Xi, è stato introdotto il concetto di “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, che poi stato fissato anche all’interno della Costituzione del Partito. Ma cos’è, esattaente, la nuova era?

La nuova contraddizione

Il rapporto politico letto da Zhao Ziyang all’inizio del tredicesimo congresso del Partito, nel 1987, riportava che “la contraddizione principale che affrontiamo nella fase attuale sono i bisogni materiali e culturali sempre in crescita del popolo e l’arretratezza della produzione sociale”. La missione storica del PCC diventava quindi quella di modernizzare la produzione, anche aprendo alle forze del mercato, anche aprendo il Partito stesso agli imprenditori che accettavano il ruolo guida del Partito.

Il rapporti di Xi al diciannovesimo congresso ha recitato che “il socialismo con caratteristiche cinesi è entrato in una nuova era, la principale contraddizione della società nel nostro paese si è trasformata in una contraddizione tra l’avanzamento continuo degli stili di vita e lo sviluppo ineguale e inadeguato”.

Se, dalla fine degli anni ’80 , la missione del PCC si traduceva nel mantenere alti livelli di crescita del PIL, ora Xi ha posto dei paletti qualitativi. L’inegualità della crescita riguarda largamente la disuguaglianza tra le province cinesi, tra le aree sviluppate e le aree rurali arretrate, l’inadeguatezza riguarda lo sbilanciamento delle fonti di crescita economica. In particolare, le difficoltà economiche dell’ultimo decennio sono state risolte tramite forti investimenti infrastrutturali – prima il piano di viabilità che ha permesso di mantenere alto tasso di crescita a fronte della crisi economica globale nel 2008-2009, ora il piano “One Belt One Road”. Una soluzione che permette di far crescere il PIL ma non di far crescere in maniera sostenuta i consumi delle famiglie, o meglio “gli stili di vita”.

Il rapporto di Xi ha confermato l’obiettivo di fare della Cina entro il 2020 una “società moderatamente prospera”. In termini pratici, si conferma l’obiettivo posto già nel diciottesimo congresso del 2012 di elevare tutta la popolazione cinese al di sopra della soglia di povertà assoluta. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2012 più di 87 milioni di persone vivevano sotto la soglia di 1,9 dollari al giorno. Secondo quanto riportato a inizio dall’agenzia Xinhua, sono ancora 30 milioni le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, calcolata però come un reddito di 2300 renminbi all’anno, circa un dollaro al giorno.

Scompaiono invece altri indicatori numerici – proclamati nel 2012 – di cosa sia la società moderatamente prospera: non si pone come obiettivo il raddoppiamento dell’economia entro il 2021, non si pone l’obiettivo di raddoppiare il PIL pro capite entro il 2020. Questo può significare molte cose. I più pessimisti pensano che la dirigenza del PCC veda all’orizzonte una crisi finanziaria. I più ottimisti, segnalano che l’eliminazione di obiettivi di crescita precisi porterà a dare più attenzione alla qualità piuttosto che alla quantità. Nel rapporto, in effetti, la “nuova era” moderatamente prospera viene descritta come avente “un’economia più forte, una democrazia più estesa, scienza ed educazione più avanzate”.

cina

Per il 2035, il rapporto fissa l’obiettivo di “aver costruito un paese socialista moderno che sia forte, prosperoso, democratico, culturalmente avanzato e armonioso”. Per i 15 anni che separano la “fase 1” dalla “fase 2”, Xi ha esposto cinque priorità, che erano già delineate in parte del Tredicesimo Piano Quinquennale:

  1. Ristrutturare la produzione industriale, sgonfiare i settori infrastrutturali che sono attualmente in sovracapacità, riduzione della leva finanziaria del debito privato;
  2. Costruire settori ad alta tecnologia in cui l’innovazione sia di livello mondiale;
  3. Ridurre l’inquinamento, migliorare la protezione ambientale;
  4. Costruire un sistema protezione sociale più forte, inclusa la copertura medica e previdenziale;
  5. Ridurre le disuguaglianze tra le province e tra le aree urbane e rurali.

Infine, l’obiettivo per il 2050, a un secolo dalla Rivoluzione di Mao: far diventare la Cina una nazione con influenza globale pionieristica, con un esercito di caratura mondiale, sempre sottomesso alla guida politica del Partito, che “non dovrà mai cercare l’egemonia”. Va notato che, nell’uso cinese, egemonia significa esattamente il contrario della lezione gramsciana: significa cercare il dominio. Quando il governo cinese contesta la politica statunitense, muove l’accusa di egemonismo.

Il PCC e la legittimità

Quello che colpisce nel rapporto politico di Xi è che l’obiettivo politico del PCC, e quindi dello stato cinese, rimane il progetto di miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari. Questo, sia ben chiaro, non toglie in nessuna maniera il potere acquisito dalle forze capitaliste, non toglie la sacrosanta critica al paternalismo, e non è questo il luogo in cui si può risolvere l’eterna domanda se in Cina vi sia una forma di socialismo o meno.

Da anni molti critici del governo cinese sostengono che si stia spostando la fonte della legittimità dal miglioramento delle condizioni di vita al nazionalismo, alla fine il progetto presentato in questo congresso si basa ancora sull’estrarre dalla povertà chi ancora vive sotto la soglia e sul migliorare la qualità della vita di chi è uscito dalla povertà pagando però il prezzo di una modernizzazione a ritmi forzati, a tratti ritmi folli. Colpisce, ma in realtà non deve stupire.

Non deve stupire perché solo un pesante pregiudizio può far pensare che le contraddizioni che percorrono la società cinese possano essere tenute insieme dalla contesa per alcuni isolotti di dubbia importanza strategica nel Mar Cinese Meridionale. Questo è un pregiudizio che è spesso esplicitato nei confronti dell’élite cinese, considerata semplicemente ipocrita e dedita agli interessi delle classi dominanti e/o di una ristretta cricca autoreferenziale. Lo stesso pregiudizio – in maniera implicita – è spesso rivolto verso lo stesso popolo cinese che non si rivolta secondo i desideri dei critici occidentali. Poco importa se i lavoratori cinesi portano anno dopo anno un livello di conflitto crescente, se passano da protestare per il rispetto delle regole minime dei contratti di lavoro a protestare per più salario e più democrazia nella gestione delle relazioni industriali. Se non protestano chiedendo la fine del governo del PCC, vengono eliminati dal discorso.

Per quanto Xi Jinping possa rafforzare la sua posizione come nucleo del Partito Comunista Cinese, è nella società, nel rapporto tra la società e il Partito, che si gioca la riuscita del suo progetto. Potrebbe sembrare una banalità, eppure troppi critici (ma anche adulatori) tendono a dimenticarsi che – come diceva Marx – è “nel laboratorio segreto della produzione” che prende forma la società.

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