Europee, Italia

Ho sostenuto in un precedente articolo che le europee siano una sommatoria di elezioni nazionali. Questo è tanto più vero in Italia, dove le europee, nonostante un sistema elettorale differente, sono vissute come la rivincita delle elezioni politiche.

40,8% – 80 euro

Confermando le mie scarse capacità divinatorie, prima delle elezioni prevedevo un PD che sarebbe riuscito al massimo a mantenere le percentuali delle politiche grazie al gioco dell’astensione, schiacciato tra la tenuta del 5 Stelle e l’ascesa delle destre. Un errore pacchiano.

++ Fisco:Renzi, nel 2015 realizzeremo quoziente familiare ++

Posso provare a consolarmi dicendo che, in fondo, errori simili siano stati fatti da altri osservatori, ben più blasonati di me. Questo non toglie che il peccato capitale non è tanto non aver imbroccato il risultato, quanto aver ignorato una regola della politica perfettamente conosciuta ma rilegata in un angolo al momento del pronostico: siamo in una fase di voto mobile, sempre più gente decide se e chi votare nell’ultima settimana se non negli ultimissimi giorni, possibilmente sotto la spinta di un messaggio chiaro, forte e netto. Quello che è riuscito a Renzi è, quindi, lo stesso colpo che è riuscito più volte a Berlusconi (aboliremo l’ICI!) e alle politiche 2013 a Beppe Grillo.

Il messaggio forte, chiaro e netto di Renzi sono stati gli 80 euro. Renzi ha dato direttamente in busta quello che vent’anni di concertazione non sono mai riusciti a dare: un aumento di stipendio secco. Intendiamoci, la manovra di Renzi è oggettivamente una porcata, una mancia elettorale che sarà pagata col taglio della spesa sociale in pieno stile Reagan-Thatcher, che probabilmente non sarà replicata l’anno prossimo e che altrettanto probabilmente porterà a nuove manovre finanziarie in autunno. Non c’è però scritto da nessuna parte che i messaggi forti, chiari e netti siano anche lungimiranti. E non si tratta neanche di fare del facile moralismo attaccando chi ha votato Renzi per gli 80 euro, semmai si tratta di capire perché altri non riescano a comunicare nulla di altrettanto forte, chiaro e netto e magari anche lungimirante.

Il risultato di Renzi è oggettivamente una vittoria schiacciante. Non bisogna però commettere l’errore di assolutizzare questa vittoria, quantomeno in termini numerici. Gli 11 milioni e 200mila voti ottenuti da Renzi sono molti di più degli 8 milioni e 600mila di Bersano nel 2013, ma sono anche di meno dei 14 milioni e 100mila di Veltroni nel 2008. Un risultato che con una massiccia astensione garantisce un impressionante 40,8%, ma che ipotizzando un’affluenza come quella delle ultime politiche diventa “solo” un 33%. Ciò che le ultime tornate elettorali ci hanno dimostrato è che questo voto mobile può passare da una parte all’altra, e non è quindi detto che vada ancora a Renzi.

L’avanzata ha anche una parte strutturale: la cannibalizzazione degli alleati montiani. Il PD in questi anni ha dimostrato di essere tuttaltro che il partito litigioso, diviso su tutto e sempre sull’orlo della spaccatura di cui spesso si parla (magari illudendosi in una salvifica scissione della “sinistra dei democratici”). Anzi, il PD ha dimostrato ancora una volta di essere una macchina straordinariamente efficacie nel digerire i propri alleati. È già successo alla Rifondazione Comunista dell’era Bertinotti, all’Italia dei Valori e ora succede alla Scelta Civica di Monti (e in maniera minore al Nuovo Centrodestra di Alfano, che sopravvive grazie alla lobby ciellina): il PD divora l’elettorato degli alleati, per le dirigenze politiche a quel punto la scelta è tra entrare direttamente nel PD o tirare la cinghia al di fuori. Indipendentemente dal fatto che il PD bissi questo risultato, è lecito pensare che l’area politica del centrismo montiano sia stata assorbita e non si ripresenterà se non dopo altri sconvolgimenti della scena politica.

Quella di Renzi è una vittoria schiacciante anche per un motivo tutto interno al mondo PD: Renzi vince senza la CGIL, anzi, contro la CGIL. Renzi da gli 80 euro e dice che chi vota PD non vota la CGIL (ovvero il sindacato che da vent’anni non è stato in grado di dare gli 80 euro). Il PD che aderisce al socialismo europeo è un Partito che rivendica fieramente di operare manovre di stampo neoliberista e di andare contro il sindacato. Cose che d’altronde erano la cifra politica del Labour di Blair e della SPD di Schroeder. La differenza tra Veltroni e Renzi è che Veltroni s’è rifiutato di dare un’identità “socialista europea” al PD nel 2008, nel 2014 i socialisti europei sono talmente spostati a destra che pure Renzi può portarci il suo PD a pieno titolo.

A destra, contro l’Europa?

Il Movimento 5 Stelle ha commesso un errore politico grande come una casa: si è posto l’obiettivo di vincere le elezioni. Avendo beneficiato del bonus del voto mobile alle scorse elezioni, tutti sapevano che i grillini non avrebbero potuto ripetere l’exploit. Se lo scorso autunno qualcuno avesse detto che Grillo (tempestato da tutta la propaganda dei media organici alla grande coalizione di governo) sarebbe arrivato al 21%, sarebbe stato preso per fesso. Quello che, di fatto, è un dato di arretramento fisiologico diventa però una sconfitta bruciante per aver completamente mancato l’obiettivo di superare il PD cavalcando lo scontento anti europeo. A trovarsi schiacciato, stavolta, è stato Grillo. La sua polemica contro la “peste rossa” dei sindacati è stata superata dall’antisindacalismo di Renzi. Le proposte traccheggianti sull’euro (fuori, dentro, facciamo un referendum e poi vediamo…) sono state sorpassate delle campagne della Lega e dei Fratelli D’Italia che parteggiavano per l’uscita senza se e senza ma. L’adesione del 5 Stelle al gruppo di destra di Nigel Farage potrebbe avere conseguenze serie su molti degli eletti pentastellati in giro per l’Italia. Ma, considerata la capacità del MoVimento di infilarsi in varie liste “civiche” di destra alle amministrative, non è scritto da nessuna parte che le fronde dei parlamentari o dei consiglieri si ripercuotano sulla base del consenso elettorale grillino.

Il vero vincitore delle elezioni a destra è Matteo Salvini. Alzi la mano chi immaginava la Lega a questo livello dopo gli scandali del 2012. Io lo facevo, ma più per abitudine a fare il profeta di sventura che per reale convinzione. E sicuramente due anni fa era difficile vedere il processo di LePen-izzazione della Lega. La Lega di Salvini infatti ha svolto una campagna molto poco localista facendo sparire slogan come “prima il Nord” o “il 75% delle tasse devono rimanere in Lombardia”. Al contrario, nelle sue esternazioni anti euro Salvini ha sempre parlato di interessi italiani contrapposti a quelli tedeschi, non di interessi padani. Vale la pena di ricordare che ancora pochi anni fa l’intellighenzia leghista fantasticava di una Padania ancorata alla Germania e all’Euro che lasciava il resto d’Italia alla deriva con la sua lira. I risultati della Lega nei collegi Centro, Sud e Isole non sono particolarmente esaltanti, ma dimostrano la capacità di dirottare i voti delle varie organizzazioni della destra estrema, CasaPound in testa. A rimanere schiacciati da questo gioco sono invece i Fratelli D’Italia che proprio al sud hanno la loro base più forte. È probabile che sia stato proprio l’attivismo leghista tra gli ambienti dell’estremismo di destra a togliere alla Meloni quello zerovirgola che le è mancato per superare lo sbarramento.

Riguardo ai rapporti con l’Europa, è da notare che Claudio Borghi, il più in vista dei candidati no euro nella Lega, sostenuto anche da Bagnai e altri opinionisti in vista, ha ottenuto un risultato deludente. 13 mila preferenza nel Nordovest e appena 2800 voti al Centro. Per dare la proporzione, nei rispettivi collegi Salvini raccoglie 230mila e 32mila preferenze. L’ondata antieuro si dimostra così anche per la Lega, oltre che per Grillo, un sentimento diffuso ma che finisce per non essere decisivo nello smuovere le dinamiche elettorali. Nel caso della Lega, come della stessa Le Pen, è poi questionabile quanto sia un progetto politico realistico e quanto una posa elettorale.

L’Altra Europa.

La Lista Tsipras l’ha fatta. Nonostante se stessa.

L’Altra Europa è, insieme a Scelta Europea, l’unica lista ad aver accentuato la dimensione europea delle elezioni mettendo il nome del candidato alla Presidenza della Commissione Europea nel simbolo. Miseramente fallita l’operazione dei centristi, quella delle sinistre passa per un risicatissimo 0,03%, circa ottomila voti assoluti. Come accennavo nel precedente post sulle elezioni, L’Altra Europa può considerarsi un’esperienza positiva in termini di eletti ma non in termini di voti assoluti. Nel 2009 la Lista Comunista (Rifondazione + PdCI) prendeva il 3,4% con 1 milione di voti, Sinistra e Libertà il 3,1% con 950mila voti e il Partito Comunista dei Lavoratori lo 0,5% con 150mila voti. Totale delle sinistre “radicali”:7% con più di 2 milioni di voti.

Alle europee del 2014 invece tutte le sinistre unite hanno raggranellato il 4,03% con 1 milione e 100mila voti. A poco può servire aggiungere i 250mila voti dei Verdi o il raccolto ancora più magro dell’Italia dei Valori. Il risultato dice che l’arretramento delle sinistre continua e che ci si è salvati solo grazie a una lista unitaria tenuta insieme con lo spago. E, a voler essere del tutto onesti, il risultato è stato raggiunto grazie anche alla mancanza di una qualunque altra lista di sinistra radicale sulla scheda. In questo senso, il tanto vituperato vincolo delle 150mila firme per presentare la lista è stato il miglior alleato dell’Altra Europa.

L’Altra Europa ha rotto molte tradizioni delle liste di sinistra in Italia, l’unico elemento identitario è il colore rosso, per il resto dal simbolo è scomparso tutto l’armamentario: bandiere rosse, falce martello, il tricolore, la stessa parola “sinistra”. Durante il processo di formazione della lista l’assenza della parola sinistra ha suscitato montagne di polemiche. La decisione è stata presa dai garanti per andare a caccia tra chi “non si definisce né di destra né di sinistra”. Un giro di parole per dire che si puntava all’area degli scontenti del 5 Stelle. Il bilancio dell’operazione è di un completo fallimento della tattica elettorale.

I dati dell’Istituto Cattaneo parlano chiaro: L’Altra Europa soffre ovunque una perdita in media del 2% dei voti verso l’astensione. Aldilà dell’analisi statistica, per chi ha fatto campagna elettorale, non è difficile individuare quel flusso in persone che semplicemente non hanno capito che quella era la lista della sinistra. La mancata caratterizzazione di sinistra si rivela quindi una decisione potenzialmente suicida che ha impedito di raccogliere il minimo della somma tra Rifondazione Comunista, Sinistra e Libertà, ALBA e le altre sigle minori. In compenso nelle città analizzate, non si registra nessun flusso di voti significativo dal M5S alla Lista Tsipras. Tutti i voti grillini in uscita finiscono a Renzi, alla Lega o nell’astensione.

La composizione del voto alla Lista Tsipras rivela due caratteristiche distinte ma incrociate. Si tratta principalmente di un voto urbano, non è difficile capire che la dove si concentrano più militanti, la lista riesce a fare una campagna elettorale migliore e addirittura a vincere la prova della Piazza come col comizio di Tsipras a Bologna. Ma all’interno dello stesso risultato urbano appare un’altra dicotomia: il voto si concentra nei quartieri centrali e si dirada nelle zone popolari. Un esempio eclatante è quello di Bologna dove il voto a L’Altra Europa segue un percorso esattamente inverso a quello che un anno fa ebbe il referendum contro i soldi pubblici alle scuole private.

Il problema, quindi, è sia di presenza militante sia di come s’impiega la militanza. Le forze raccolte attorno alla lista, per quanto determinate ed energiche, hanno potuto ovviare solo in parte al profilo moderato impostato dai garanti. Vantarsi di avere una discreta componente giovanile (cosa che potevano vantare sia L’Arcobaleno sia Ingroia) non può far dimenticare che si tratta di una componente prevalentemente ad altra istruzione in contatto con le varie strutture politiche universitarie che hanno partecipato al progetto Tsipras (basti pensare agli ottimi risultati in termini di preferenze a Riccio e Quarta). Non può in nessuna maniera compensare che pur esibendo candidature operaie e appoggio esplicito da pezzi di sindacato la sinistra è ulteriormente arretrata nei settori del lavoro manuale, recuperando invece qualcosa tra i cosiddetti “lavoratori della conoscenza”.

Dopo

Il dibattito avviato all’interno dei sostenitori della Lista Tsipras non appare particolarmente esaltante. La migrazione di una parte del ceto politico vendoliano verso il PD era scontata già da anni, rimanevano un’incognita i tempi e modi che possiamo ora apprendere da i giornali.

La modalità dell’accettazione dell’elezione da parte di Barbara Spinelli rivela però un altro nervo scoperto della lista: pur propagandando metodi partecipativi in qualunque contesto, L’Altra Europa è stata di fatto costruita attraverso un lavoro estremamente verticistico. Che fosse necessario per costruire la lista in tempi brevissimi è un conto, altro conto è questo atteggiamento prosegua dopo le elezioni. In particolare, nella vicenda Spinelli/Furfaro si è lasciato che la reale motivazione politica della rottura fosse materia per voci da corridoio mentre tutti i giornali si scatenavano accusando Spinelli di essere venuta meno alla parola data. Non sarebbe stato meglio, molto meglio, se si fosse dibattuto pubblicamente del rapporto che l’eletto di SEL avrebbe tenuto col Partito Socialista Europeo? Non sarebbe stato meglio discutere pubblicamente del fatto che aderire a un gruppo piuttosto che a un altro non è questione di lana caprina ma sostanza politica?

Proseguendo con questo metodo si favorisce un lento ritorno ai punti di partenza: comunisti isolati, Vendola col PD, movimentismo civile frammentato. Il tutto ovviamente distaccato dal conflitto sociale.

Eppure, proprio i risultati di PD, delle destre e del 5 Stelle dovrebbero suggerire che per le sinistre sarebbe giunto il momento di darsi una svegliata.

 

Europee a sinistra, parlarne seriamente.

Le elezioni  europee non sono europee. Sono una sommatoria di elezioni nazionali. Specialmente per quanto riguarda le sinistre, è difficile riscontrare tendenze riscontrabili in tutti i paesi e neanche per gruppi di paesi. Al contempo, non sono neanche direttamente paragonabili alle elezioni politiche nazionali, molto diverse le affluenze, spesso diverso l’atteggiamento dell’elettorato, spesso diverse le leggi elettorali.

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Analizzare il risultato delle sinistre quindi richiede un ritorno al principio base dell’analisi elettorale: ogni elezione si paragona solo con un’elezione omologa. Un principio che molti, pur avendo una certa esperienza, hanno dimenticato per strada…

Cosa sono le sinistre in Europa?

Non analizzo qua il risultato dei partiti di “sinistra moderata” che fanno riferimento al Partito del Socialismo Europeo e al suo gruppo Socialisti e Democratici. Il perché è auto evidente.

Non analizzo nemmeno il risultato dei Verdi. Ci sono due motivi. 1) La “famiglia” dei verdi europei ha da tempo intrapreso un cammino verso un ecologismo post ideologico. I capofila di questa transizione sono i Verdi tedeschi (Grune90), che ultimamente è lecito considerare posizionati alla destra della socialdemocrazia (SPD), dopo aver sostenuto il Fiscal Compact ed essersi proposti come alleati di governo della Merkel. Su questa posizione non c’è unanimità né all’interno degli stessi Grune90 né nel gruppo, però è un dato di fatto che in larga parte degli ecologisti europei prevale una tendenza all’alleanza con la socialdemocrazia. 2) Oltre ai travagli ideologici degli ecologisti veri e propri, il gruppo dei Verdi include anche l’Alleanza Libera Europea, un raggruppamento di vari gruppi autonomisti “progressisti”. Sulla definizione di progressisti si può discutere a lungo, ma per quanto riguarda il mio discorso, basta ricordare che quest’Alleanza spazia dai nazionalisti socialdemocratici scozzesi ai liberal conservatori fiamminghi.

Quello che analizzo, è il risultato delle sinistre che in Italia chiameremmo “radicali”. Sono forze politiche che fanno riferimento al gruppo della Sinistra Unitaria Europa/Sinistra Verde Nordica (GUE/NGL), al Partito della Sinistra Europa, all’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai. Si tratta evidentemente di un gruppo estremamente eterogeneo, accomunato fondamentalmente dall’indipendenza, sia in Europa che nei singoli stati, dalle sinistre moderate. Non a caso, il gruppo agisce in maniera confederale, che vuol dire che un partito o anche un singolo eurodeputato in disaccordo con la posizione del gruppo non ha nessun obbligo di voto secondo disciplina.

I risultati del GUE

Alla prima riunione di costituzione il GUE/NGL ha registrato l’adesione di 52 eurodeputati, il risultato più grande dalla fondazione del gruppo, peraltro arrivando da una legislatura tre le più magre per il gruppo.

Legislatura Membri sul totale
1995-1999 34/567
1999-2004 42/626
2004-2009 41/732
2009-2014 35/766
2014-2019 52/761

È da notare che il quinquennio 2009-2014 vanta un eurodeputato un più di quello ’95-’99 ma su un numero maggiore di deputati e che proprio alla fine della legislatura due deputati del Partito Comunista Greco (KKE) hanno annunciato l’abbandono del gruppo.

Il sindacato del KKE

Il sindacato del KKE

La distribuzione dei membri eletti nel gruppo è così composta.

Stato/Partito o lista Percentuale Cambiamento Seggi Cambiamento
Cipro – Partito Progressista dei Lavoratori AKEL 26,98% -7,92% 2 2
Repubblica Ceca – Partito Comunista di Boemia e Moravia – KCSM 10,98% -3,2% 3 -1
Danimarca – Movimento Popolare Contro l’Unione Europea – FmodEU 8,1% +0,9% 1 0
Finlandia – Alleanza di Sinistra – V 9,3% +3,4% 1 +1
Francia – Fronte della Sinistra – FdG 6,61% +0,13% 4 -1
Germania – La sinistra – Linke 7,39% -0.1 7 -1
Germania – Animalisti – TP 1,25% 0,1 1 +1
Grecia – Coalizione della Sinistra Radicale – SYRIZA 26,57% 21,87% 6 +5
Irlanda – Noi Stessi – Sinn Fein SF 19,5% 8,3 3 +3
Irlanda – Flanagan – Indipendente 7,48 Non presentato 1 +1
Italia – L’Altra Europa con Tsipras 4,03% -2,49% 3 +3
Olanda – Partito Socialista – SP 9,6% +2,5% 2 0
Olanda – Animalisti – PvdD 4,2% +0,6% 1 +1
Portogallo – Blocco di Sinistra – BdE 4,6% -6,2% 1 -2
Portogallo – Coalizione Democratica Unitaria – CDU 12,7% +2% 1 -2
Spagna – Sinistra Plurale – IP 9,99% +6,28& 6 (1 eletto nel gruppo dei Verdi) +4
Spagna – Possiamo -Podemos 7,97% Non presentato 5 +5
Spagna – I popoli decidono – BILDU 2,07% +0,95% 1 +1
Svezia – Partito della Sinistra – V 5,66% +0,65% 1 0
Regno Unito – Noi Stessi – Sinn Fein SF 0,97% +0,16% 1 0

Vale anche la pena di guardare i risultati di alcuni partiti che non sono riusciti a eleggere e del KKE, appena fuoriuscito dal gruppo.

Stato/Partito o lista Percentuale Cambiamento Seggi Cambiamento
Austria – Europa Differente (Comunisti + Pirati) – (ANDERS) 2,14% +1,49% (rispetto ai soli comunisti) 0 0
Belgio – Partito dei Lavoratori – PvdA/PTB 3,51% +2,46% 0 0
Bulgaria – Sinistra Bulgara -BL 0,5% Nel 2009 non esisteva 0 0
Croazia – Partito del Lavoro – HLSR 3,4% -2,37% 0 -1
Ungheria – Partito Operaio Ungherese Non Presentato -0,96% 0 0
Irlanda – Partito Socialista – SP 1,8% -0,9% 0 -1
Lettonia – Partito Socialista – LSP 1,54% -11,6% (in coalizione col Partito Socialdemocratico) 0 -1
Lussemburgo – La Sinistra –Lenk 5,76% 2,36% 0 0
Lussemburgo – Partito Comunista – KPL 1,5% 0 0 0
Polonia – Partito del lavoro Non presentato -0,7% 0 0
Slovenia – Sinistra Unita – ZL 5,47% Non presentata 0 0
Grecia – Partito Comunista di Grecia – KKE 6,09% -2,26% 2 0

 

Gli eletti nelle liste delle sinistre in Europa sono quindi 55. Il risultato però richiede di essere analizzati più in profondità. Come già detto i 2 eletti del KKE greco non andranno nel GUE/NGL preferendo, pare, non iscriversi a nessun gruppo. 1 eletto della Sinistra Plurale spagnola (alleanza tra la Sinistra Unita social-comunista e forze minori di sinistra ed ecologiste) andrà coi verdi. Queste sole “defezioni”, per quanto prevedibili, portano il gruppo a 52 elementi, uno in meno del gruppo verde che, mentre scrivo, contra 53 aderenti.

Edit 22 Giugno: in seguito a rimescolamenti vari, il gruppo verde è passato a soli 50 membri.

GUE/NGL

GUE/NGL

La geografia delle liste che non eleggono, o che addirittura non presentano alcuna lista (mancano dalle tabelle, Romania, Malta, Lituania ed Estonia) dimostra la difficoltà delle sinistre a rimettere piede in molti paesi ex socialisti, se non affidandosi a fenomeni estemporanei e difficilmente ripetibili come i croati del HLSR o i lettoni dell’LSP. D’altra parte si presentano a queste elezioni con risultati degni di nota, per quanto piccoli, i risultati della Sinistra Unita slovena e dell’ANDERS austriaco, su cui il Partito della Sinistra Europea ha fatto un discreto investimento. Investimento che è andato anche alla Sinistra Bulgara che raccoglie però un risultato molto sotto le aspettative che prevedevano un 3%.

Discorso diverso è quello fattibile per alcune forze come i belgi e i lussemburghesi che ottengono risultati buoni (soprattutto i belgi, considerando che pochi anni fa sembravano in via d’estinzione) ma non eleggono a causa delle soglie molto alte.

Andando ai paesi che eleggono, la parte del leone nel risultato è fatta dalla SYRIZA greca e dalle varie sinistre spagnole. È da notare che mentre era abbastanza scontata l’adesione al GUE/NGL da parte di Podemos, non altrettanto era quella dell’eletto del BILDU, dato che la coalizione di indipendentisti I Popoli Decidono coinvolge anche movimenti locali che in Europa farebbero riferimento ai verdi o ai liberali.

Erano indecisi se fare sta roba o convocare un twistorm

Erano indecisi se fare sta roba o convocare un twistorm

Un risultato importante è quello dell’Italia che torna al Parlamento Europeo con 3 eurodeputati. Un risultato però complesso, inferiore in percentuale e in voti alla somma della Lista Comunista di Sinistra E Libertà nel 2009. La stessa tenuta del gruppo di eletti all’interno del GUE/NGL è stata messa in discussione immediatamente dopo le elezioni portando al balletto di Spinelli e alle polemiche di Maltese. Sicuramente è difficile pensare che una liste che su 3 eletti porta due opinionisti di Repubblica sia del tutto considerabile come sinistra “radicale”.

Le sinistre di Francia e Germania portano a Bruxelles un deputato in meno a testa pur rimanendo sostanzialmente stabili in percentuale. La differenza è che in Germania questo accade perché l’abbattimento (sacrosanto) della soglia di sbarramento redistribuisce seggi anche a partiti attorno all’1%. In Francia, invece, è da notare che nel 2009 alla sinistra del Fronte della Sinistra esisteva ancora il Nuovo Partito Anticapitalista capace di raccogliere il 4,88% dei voti (senza eleggere). L’NPA s’è poi scisso in varie fazioni di cui una confluita nel Fronte.

In Irlanda il Sinn Feinn guadagna su tutti i fronti, nonostante l’incarcerazione del leader Gerry Adams a un mese dal voto, e guadagna tre parlamentari. È da notare che nel 2009 i trozkisti del Partito Socialista riuscivano a eleggere un eurodeputato grazie alla concentrazione del loro 2,7% tutto nella circoscrizione di Dublino, impresa non riuscita nel 2014.

Il Regno Unito rimane un buco nero per le sinistre. L’unico deputato eletto è quello del Sinn Fein in Nord Irlanda (dove lo 0,97% a livello nazionale significa un 25,5% nella circoscrizione!), mentre la neo-fondata Left Unity (anche questa, con un discreto appoggio politico della Sinistra Europea), s’è presentata soltanto ad alcune elezioni locali ottenendo risultati dignitosi ma in nessun modo confrontabili con le europee.

Un ultimo sguardo va dato all’afflusso di membri nel GUE/NGL dopo le elezioni. È il caso degli animalisti tedeschi e olandesi, entrambi difficilmente inquadrabili come prettamente “di sinistra”. Caso a parte è quello di Luke Flanagan, indipendente irlandese, noto per battaglie sulla legalizzazione delle droghe.

Si può considerare una vittoria?

A livello di parlamentari eletti in liste di sinistra radicale, di appartenenti al GUE/NGL e di peso percentuale del GUE/NGL nel parlamento, è sicuramente la miglior legislatura per le sinistre radicali dopo la fine dell’URSS.

PCP

PCP

In Italia è sicuramente stata vissuta come una vittoria per il ritorno delle sinistre in parlamento, personalmente non posso fare a meno di essere ampiamente soddisfatto per l’elezione di Eleonora Forenza del PRC. Dopo una lunga serie di sconfitte elettorali i comunisti sono tornati in un’assemblea di livello nazionale con una lista indipendente dal centrosinistra. Dopo il disastro di Rivoluzione Civile nessuno l’avrebbe mai detto. Ma questo dovrà essere analizzato in dettaglio in altra sede.

Alcune voci si sono levate per smorzare gli animi della festa. Quella di Rossana Rossanda, in particolare, le cui obiezioni sono però traballanti. A differenza di quanto sostiene la storica fondatrice del Manifesto, infatti, con la candidatura di Alexis Tsipras il Partito della Sinistra Europea non intendeva affatto lanciare una realistica scalata alla Presidenza della Commissione Europea. Fin dal Congresso di Madrid, la Sinistra Europea ha inteso la presentazione di una candidatura alla Presidenza come un mezzo per illustrare le contraddizioni dell’Unione Europea. L’idea che l’obiettivo fosse vincere (cosa chiaramente irrealizzabile!) è forse solo una conseguenza del dibattito ultra personalista che si è avviato in Italia sulla “lista Tsipras”.

Il vero problema, è che si puntava a un risultato più alto.

Gruppo Seggi Cambiamento dal 2009
Popolari (EPP) 221 -53
Socialisti e Democratici (S&D) 191 -5
Liberali e Democratici (ALDE) 83 -20
Verdi – Alleanza Libera Europea(G-EFA) 52 -5
Conservatori e Riformisti Europei (ECR) 63 +6
Sinistra Unitaria Europea – Sinistra Verde Nordica (GUE/NGL) 52 +17
Europa di Democrazia e Libertà (EFD) 45 +14
Alleanza Europea per la Libertà (EAF) 38 (nuovo)

A una rapida occhiata, appare chiaro che i partito “del sistema” sono andati indietro. In particolari EPP e ALDE, ma anche S&D e G-EFA. La dinamica italiana incide profondamente sugli equilibri tra i gruppi. Dei 20 membri persi dai liberali, 7 sono dell’IdV, al contrario i socialisti limitano le perdite anche grazie ai 10 seggi in più guadagnati da Renzi.

In una dinamica più complessa è invece l’ECR, che insieme ai Tories inglesi raggruppa anche partiti di varia provenienza. Se è possibile indicare pienamente come “destra populista” i polacchi di Legge e Famiglia, è difficile inquadrare così Alternativa per la Germania, il partito dei tecnocrati anti euro di Berlino.

Segna una crescita notevole anche EFD, il gruppo dello UKIP di Farage e, ormai, anche di Beppe Grillo che dall’Italia porta in dote 17 parlamentari che compensano la fuoriuscita della Lega Nord. Aldilà del dibattito sul posizionamento politico del 5 Stelle (e personalmente spero che questa mossa contribuisca a una sana scissione), EFD è un gruppo chiaramente di destra radicale. Di quella destra radicale che mescola nazionalismo e liberismo e opposizione all’integrazione europea.

L’EAF è, mentre scrivo, ancora un’incognita. Se Marine Le Pen riuscisse a formare un gruppo parlamentare dietro al suo Front National, si tratterebbe del gruppo col guadagno più marcato. Non è però detto che ce la faccia. Il progetto di modernizzazione del partito operata da Le Pen Junior infatti prevede di tagliare i ponti con le destre esplicitamente nazista: fuori quindi Jobbik ungherese, Alba Dorata greca e NPD tedesco. Dentro invece chi intende seguire Marine, come Matteo Salvini, in un percorso della costruzione della destra fascista in doppio petto a livello europeo. Recuperare eurodeputati da 7 paesi per poter istituire un gruppo rimane quindi un problema, se non ci riuscisse ora, Le Pen comunque ha di fronte 5 lunghi anni in cui qualche deputato di destra può cambiare idea (capita spesso a quelli dell’UKIP che litigano con Farage) e soprattutto può contare su un sistema di alleanze che per ora pare ben più politicamente compatto di ECR e EFD.

Il GUE/NGL, in tutto questo, guadagna ma non quanto ci si era prefissati negli obiettivi. Certo, gli obiettivi non erano fissati nero su bianco, ma erano almeno due: scavalcare i verdi e compensare la crescita dell’estrema destra. Dopo le defezioni più recenti, i Verdi sono scivolati sotto di due europarlamentari (ed è importante, come spiega Agnoletto), ma soprattutto le destre estreme eleggono un centinaio di parlamentari, includendo anche elementi chiaramente estremisti come l’ungherese Orban che rimane integrato nei Popolari.

Come e perché i partiti del GUE/NGL non abbiano centrato questi obiettivi, è una questione che riguarda ogni singola elezione nazionale. Di sicuro è stata spazzata via l’illusione che ci fosse una tendenza automatica alla crescita delle sinistre.

Le tendenze

Dopo le elezioni è cominciata la ricerca di una tendenza unitaria, di una dicotomia, che spiegasse facilmente e univocamente perché è andato bene chi è andato bene ed è andato male chi è andato male.

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Toni Negri scrive che la dimensione nazionale e “sovranista […] è un terreno su cui solo la destra […] vince. Al lato opposto, Aldo Giannuli sostiene che la protesta ha premiato i partiti che si sono dichiarati apertamente contro l’Euro e la Ue (è sintomatico che il Pc portoghese, che aumenta, è fra quelli della sinistra che si sono pronunciati contro l’Euro, come del resto il Kke). La complessità dei risultati smentisce entrambi i risultati, se in Grecia vince pienamente Syriza con la promessa di non uscire dall’euro (ma, dettaglio spesso omesso, con un ampio dibattito interno sulla questione), in molti paesi avanzano forze sovraniste: la CDU in Portogallo, il Movimento Popolare contro l’UE in Danimarca, il Partito Socialista in Olanda e così via. D’altra parte, non pare che la scelta nettamente europeista de L’Altra Europa abbia portato a grandi risultati;

La polemica sempre più feroce del KKE contro la Sinistra Europea ha portato alcuni a pensare che l’adesione o meno al Partito a livello europeo potesse influenzare il risultato. In realtà, risultano in crescita sia partiti fortemente integrati nella SE (Syriza, Izquierda Plural, per esempio) sia partiti autonomi (Sinn Fein, CDU portoghese, SP olandese). Alla stessa maniera del primo gruppo risultano in difficoltà o in calo partiti come Blocco di Sinistra e la stessa Lista Tsipras. Tra gli indipendenti è proprio il KKE ad arretrare.

A questo turno non pare sia possibile trovare tra i partiti del GUE/NGL forze che risentano di una partecipazione al governo come poteva essere Rifondazione Comunista nel 2009. Forse l’unico partito a poter rientrare in una dinamica del genere è l’AKEL cipriota che non riesce più a tornare sulle percentuali di quando riuscì a eleggere il Presidente della Repubblica. D’altra parte, questo vuol dire che neanche stare in opposizione garantisce una rendita sicura.

Ovviamente tutto questo non vuol dire che il posizionamento rispetto all’euro e al processo di integrazione europea, che la cultura politica e la struttura organizzativa delle singole forze politiche e che tantomeno il rapporto con la questione del governo siano bruscolini. Il fatto, mi sembra, è che la performance di un partito di sinistra non può non essere collegata all’andamento reale del conflitto tra capitale e lavoro.

Una dicotomia che appare utile per capire una parte di questa realtà può essere quella centro-periferia, una contrapposizione che stiamo stati abituati a immaginare tra il “nord” e il “sud” del Mondo, indirettamente segno dello sfruttamento delle classi dominanti del nord su tutti i sud, che ora si ripresenta in maniera sempre più lampante all’interno dell’Unione Europa. In questo senso, vediamo che le grandi avanzate della sinistra oggettivamente si hanno solo in periferia: Grecia, Irlanda, Spagna, parzialmente Portogallo. Nel centro rimangono invece forze di sinistra che non sembrano in questo momento capaci di spezzare il circolo perverso che oppone gli interessi delle classi subordinate del centro a quelli delle classi subordinate delle periferie: la Linke tedesca. In mezzo, si muovono paesi più o meno integrati nell’economia del centro in cui le sinistre galleggiano senza riuscire a dare un colpo di reni: Italia e Francia (in diminuzione), Belgio e Olanda (in leggere aumento).

La collocazione centro-periferia però non può spiegare tutto. Alla fine c’è un elemento che riguarda ogni singolo paese in maniera diversa: la conflittualità sociale (in primis, nella forma di conflitto tra capitale e lavoro) e se come i partiti di sinistra vi partecipano.

Nel saggio Vecchi e Nuovi Soggetti Sociali Critici e Antagonisti  in Europa, Alfonso Gianni cita una serie di paesi in cui attorno al 2012 c’è stata una tendenza all’aumento del conflitto: Belgio, Bulgaria, Cipro, Estonia, Germania, Italia, Grecia, Portogallo e Spagna. Si tratta di paesi sia periferici sia centrali, con partiti di sinistra molto diversi fra loro. Incrociando questi dati si può provare, però, a trarre delle conclusioni.

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Una vita fa

In Germania, come già detto, la Linke vive una crisi tra il mantenimento del livello relativamente alto della qualità della vita dei lavoratori dipendenti (e, in particolare, di quella fascia di “aristocrazia operaia” che fa riferimento ai sindacati dove la Linke è più radicata) e la consapevolezza dei danni alle classe subordinate dei paesi periferici.

In Italia, i partiti della sinistra sono da tempo ininfluenti sulla lotta sindacale e cercano di mascherare la mancanza di linea sindacale con l’adesione di questo (Landini) o quel (Cremaschi) sindacalista al cartello elettorale di turno. Per di più, quella piccola ripresa di conflitto sociale che sembrava delinearsi tra 2010 e 2011 grazie alla coppia movimento studentesco-FIOM è andata via via perdendosi fino alla situazione attuale in cui lo sciopero generale della CGIL è diventato un mitico animale da bestiario.

In un Belgio sorprendentemente (per la sua storia di paese “pacifico”) in aumento di lotta di classe, il Partito dei Lavoratori, che nelle ironie di molti fini strateghi della sinistra nostrana sembrava destinato all’estinzione, torna a essere una forza politica con un ruolo da giocare grazie a un serio lavoro di radicamento nella classe di lungo periodo.

In Grecia, il livello dello scontro e la capacità delle sinistre di farvi parte (sia Syriza, sia KKE hanno le loro correnti sindacali organizzate) sono note, al punto che le sinistre radicali hanno completamente ribaltato i rapporti di forza rispetto alla sinistra moderata.

Portogallo e Spagna sembrano avere una storia comune ma con un finale, per ora, diverso. Entrambi i paesi sottoposti a pesantissime misure di austerità, hanno entrambe avuto un aumento di conflitto sindacale e di mobilitazione sociale più vasta.
Però in Spagna la mobilitazione dei cosiddetti indignados ha tenuto botta e ha saputo darsi forme continuative oltre agli accampamenti in piazza. Sindacati e movimenti hanno portato acqua ai mulini di tutte le sinistre: Izquierda Unida/Plural incassa l’influenza nel sindacato CCOO e già due anni fa eleggeva in parlamento un portavoce degli indignados, Podemos si propone direttamente come “partito degli indignati”, più legato a questioni “moralistiche” come la corruzione.
In Portogallo, dopo la fase di piazza il movimento “si fotta la Troika” s’è via via ritirato, lasciando il conflitto sociale tutto sulle spalle del sindacato, in particolare sulla CGTP il cui segretario è membro del Partito Comunista. In questo senso, è possibile leggere l’avanzata della CDU (di cui il PC è la colonna portante) e l’arretramento del Blocco di Sinistra come lo specchio del mantenimento del conflitto sindacale e l’arretramento del movimentismo.

Si tratta ovviamente di un’analisi rozza e semplificata. La mia conclusione personale è che, come dicevo in avvio, ci sono state 28 elezioni nazionali ed ognuna è stata una storia a parte, perché nonostante il processo di “integrazione” europea le società rimangono diverse ed invece che omologarsi, divergono e per di più vengono rinfocolati odi nazionali ed etnici. Le sinistre all’interno di questo quadro ottengono un risultato di miglioramento ma insufficiente anche solo a porsi come contraltare alla radicalizzazione delle destre. Il compito di un partito di sinistra, e per di più di uno comunista, non può essere quello di aspettare pazientemente i prossimi cinque anni (sperando che l’UE ci sia ancora) per giocarsi la carta del leader che avrà il vento in poppa nel 2019. Dovrebbe essere quello di riannodare pazientemente i fili con le classi subordinate. La semplicità difficile a farsi.

Enrico Berlinguer

E’ ormai luogo comune che Berlinguer, col compromesso storico, sia stato il precursore del PD. E che, soprattutto, sia stato l’omicidio di Moro da parte delle BR a evitare l’inevitabile incontro tra un PCI ormai comunista solo di nome e la Democrazia Cristiana.
Nel libro Il Sarto di Ulm Lucio Magri contesta duramente questa visione. Nel capitolo Omissioni, reticenze e bugie smonta le ricostruzioni storiche del governo della “non sfiducia” tra il ’75 e il ’78, sostenendo che:

1) è falso che l’elettorato del PCI fosse interessato a una “normale alternanza tra centrodestra e centrosinistra

2) è falso, o quantomeno non del tutto vero, che lo “stato di emergenza” fosse oggettivo e non una costruzione dei rapporti di forza tra socialisti, democristiani e comunisti. E americani

3) è falso che le sinistre abbiano ottenuto una qualunque cosa dai governi della non sfiducia

4) è falso che giovani e operai abbiano seguito ciecamente il PCI nel compromesso storico.
Magri ricorda che Berlinguer costrinse Andreotti alle dimissioni, salvo ritrovarsi con un nuovo governo ancora più chiuso alle richieste del PCI.

Magri conclude così:

Ho insistito su questi dettagli perchè sia chiaro che, in quella fatale mattina del 16 Marzo 1978 (la mattina del rapimento di Moro), la “grande coalizione” era già in una crisi irrecuperabile.

E’ dunque un’autentica e consapevole falsità dire che a interrompere il cammino di un faticoso ma fecondo tentativo fu il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Anzi è vero il contrario Quell’atto sciagurato servì a prolungare il governo della “grande coalizione”, ormai boccheggiante, per quasi un anno […]

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L’evidenza di questi fatti è tale che sembrerebbe inutile inoltrarsi nel
ginepraio di confessioni, memorie, atti processuali, inchieste parlamentari, che è fiorito su quel drammatico evento. Per scrupolo mi sono letto gran parte di quel materiale e ne ho tratto qualche convinzione. Proprio dai fatti ormai accertati emergono alcuni problemi trascurati, ma importanti, sia per valutare l’evento sia per gettare luce sui suoi lati più oscuri. Ne elenco alcuni. Perché quel sequestro, e ancor di più quell’assassinio, quando ormai era chiaro a tutti il fallimento della «grande coalizione» e prevedibile la sua crisi definitiva? Che interesse potevano ormai avere a favorirlo o provocarlo, eventuali «forze oscure» che si opponevano alla
partecipazione ormai fuori causa dei comunisti al governo? Perché d’altro lato le Brigate rosse, avendo come obiettivo una generale destabilizzazione del sistema e l’allargamento della propria base di consenso, dopo aver ottenuto da Moro, con lunga e rischiosa segregazione, dichiarazioni brucianti e credibili rivelazioni (la scelta più destabilizzante e la vittoria più riconoscibile), lo hanno invece ucciso e hanno occultato e distrutto la parte più scottante dei verbali dei suoi interrogatori? Come si spiegano la trascuratezza e l’inefficienza con le quali gli apparati dello Stato da tempo affrontavano il terrorismo e affrontarono poi la sua iniziativa più pericolosa? Perché la scelta della «fermezza» esibita da tutti i partiti di governo, anziché produrre una maggiore unità ha portato a divisioni e sospetti tra loro? Non ho la presunzione di fornire a questi interrogativi risposte esaurienti e credo che nessuno potrà darle finché molti scheletri non usciranno all’armadio. Ma alcune cose si possono dire e provare.
Anzitutto sulla reale natura delle Brigate rosse, chiarendo radicati equivoci. L’idea che le Br fossero da lungo tempo la facciata e lo strumento di un grande complotto di altre forze reazionarie che le governavano è assurda. Decine, anzi centinaia di persone – se si
considerano gli arrestati e i nuovi reclutati – non ne uccidono altre centinaia (spesso incolpevoli), né sono disposte a morire o a passare la vita in prigione, senza un’identità ideologica forte che le sorregga; e non potevano avvicendarsi in un’organizzazione che vive come una comunità senza accorgersi, per anni, di essere usate per tutt’altri fini. Altrettanto infondate e fuorvianti mi paiono però sia la tesi secondo la quale le Br nacquero e degenerarono come parte di un «album di famiglia» – e questa famiglia era il Pci –, sia la tesi che di loro ormai si sa già tutto. Al Pci e alla sua lunga storia si possono fare molte accuse a proposito dell’insurrezione armata come parte integrante di un processo rivoluzionario, ma mai, in qualsiasi fase o paese, gli si è potuto imputare una condiscendenza verso il terrorismo, cioè verso un’azione cruenta, fuori dal contesto di una guerra di popolo e non sostenuta da ampie masse. E infatti il gruppo promotore delle Br, in tutto il suo sviluppo, non ebbe dirigenti o militanti prodotti da quella storia: in maggioranza provenivano da generazioni senza un passato politico, molto spesso addirittura venivano dalle file del movimento cattolico. Qual era dunque l’origine di quel gruppo, qual era e restò il suo elemento fondativo? Di questo si sa tutto. L’organizzazione nacque tardi rispetto ai veri conflitti sociali degli anni sessanta, da cui presto si separò e a cui dedicò limitate attenzioni. La sua ideologia fu e rimase quella sudamericana del «fuoco guerrigliero» (quando già era stata sepolta anche da Castro, e Guevara, nel tentativo di riassumerla, era morto nell’isolamento). A congelare e a riprodurre in modo sempre più delirante quell’ideologia fu, però, la scelta organizzativa compiuta nel 1970: la clandestinità. Non è vero che sempre l’organizzazione è il prodotto dell’ideologia, può accadere anche il contrario, e accadde. Basta rileggere le autobiografie, pur spesso discordanti, di Franceschini, di Curcio, di Moretti per convincersi di questo meccanismo. La clandestinità, soprattutto in un piccolo gruppo isolato, forma le teste: una vita separata, la necessità del segreto, il pericolo costante, la necessità dell’armamento e del gesto esemplare per comunicare un messaggio al popolo, e la necessità di scegliere i bersagli commisurandoli alla propria forza più che alle loro colpe, di dover via via alzare il tiro per farsi sentire, di reclutare nuovi militanti per colmare le perdite subite, producono una versione estremizzata del «fuoco guerrigliero» e rendono l’organizzazione autoreferenziale. L’analisi della realtà viene deformata e diventa strumentale. Così si spiega molto del sequestro Moro: per le Br non contava molto destabilizzare il potere statale e politico (che per loro era già fatale nelle cose), importava soprattutto dare una dimostrazione di forza che permettesse di aggregare buona parte di quei militanti che, dopo il Settantasette, erano incerti e così avviare un processo che alla fine convincesse le masse dell’utilità della lotta armata.
Qualcosa del genere dopo il sequestro Moro si avviava: nuovi gruppi armati improvvisati, gli omicidi casuali. Per questo un compromesso vero, che sancisse non il loro riconoscimento ma la loro credibilità operativa, era particolarmente pericoloso, avrebbe facilmente potuto avviare una barbara escalation. Tutto questo non esclude affatto l’ipotesi dell’infiltrazione e dell’inquinamento, solo la riduce e ne fornisce una chiave di lettura parziale ma convincente. Nessun gruppo clandestino è impermeabile alla penetrazione. È dimostrato anche nel caso del Pci, dell’antifascismo, fin dagli anarchici e dai carbonari. Nel caso delle Br ci sono indizi chiari in materia, si tratta di cogliere e decifrare quelli più evidenti.

Un primo indizio ci è offerto, nel 1974, dalla vicenda dell’arresto a Pinerolo dei due maggiori leader, Curcio e Franceschini. Una telefonata anonima, certa, mise qualcuno delle Br in guardia, con ventiquattr’ore di anticipo, della trappola preparata per loro, ma l’avvertimento non arrivò. Il che dimostra molte cose: certamente che erano penetrabili, non da James Bond, ma anche da un personaggio ambiguo e squallido come frate Mitra; certamente che non possedevano canali di protezione e di comunicazione interna che li garantissero in casi di emergenza; probabilmente che c’erano e restavano tra loro dei collusi; probabilmente che gli apparati dello Stato erano orientati, sul nascere, non a stroncare il fenomeno terroristico, ma a congelarlo e a selezionare gli arresti, al fine di far prevalere in esso un carattere militarizzato e privarlo di una compiuta direzione. Il che è avvenuto fino all’omicidio di Moro.

Stragi e complotti portan la firma di Craxi e Andreotti

Stragi e complotti portan la firma
di Craxi e Andreotti

Non è perciò falso, ma del tutto inesatto, dire che la rottura formale della «grande alleanza» sia stata decisa dal Pci in modo precipitoso e drastico. Se si fa attenzione alle date e si consultano gli archivi, pare vero piuttosto il contrario, e lo devo dire anche se non mi piace. Il 7 gennaio del 1979 Berlinguer tirò le somme e propose alla Direzione la decisione di interrompere l’esperienza della grande coalizione. Pertini cercò di rappezzare le cose dando un incarico a La Malfa. Il tentativo fallì però perché nessuno ormai ci credeva. Si compose dunque un governo Dc-PsdiPsi che fu bocciato e allora si concordò di andare a nuove elezioni politiche. Il 30 marzo si tenne il XV congresso, dove Berlinguer disse finalmente, senza subordinate, che «il Pci resterà all’opposizione di ogni governo che lo escluda», ma confermò la «larga intesa» come prospettiva per cui battersi. Su tale linea il partito andò alle elezioni del 3 giugno 1979 e pagò da solo il prezzo di un fallimento comune. Perse il 4% dei suoi voti, particolarmente nelle zone operaie e tra i giovani. Il risultato elettorale non indicò però, di per sé e nel suo complesso, uno spostamento a destra del paese: la Dc, il Psi, anche l’estrema destra non guadagnarono pressoché nulla, le perdite del Pci andarono a vantaggio dell’estrema sinistra, divisa in varie liste, particolarmente a favore dei radicali e del Pdup (che era rimasto solo, dopo una scissione e senza un giornale, e tutti davano perciò per morto). La vera sconfitta del Pci più che elettorale era politica e sarebbe venuta in piena luce nei mesi successivi. Il partito socialista craxiano non si limitò più ad accentuare la sua distanza dal Pci, ma rese esplicita una svolta ideologica (rottura con il marxismo ancor più netta di quella compiuta dalle altre socialdemocrazie, perché compiuta in nome dell’improbabile Proudhon, per stabilire una distinzione rispetto a tutta la storia passata del socialismo italiano), e una svolta radicale di strategia politica (l’alleanza di governo competitiva ma permanente con la Democrazia cristiana). Il congresso della Dc a sua volta rovesciò Zaccagnini, affidandosi a Piccoli e a Forlani, e approvò un documento impegnativo nel cui preambolo escludeva in linea di principio un’intesa di governo con il Pci. Partecipe, anzi regista della svolta fu Donat-Cattin: lo registro perché egli aveva conservato un rapporto particolare con la Cisl e le Acli e quindi apriva la strada a una crescente incrinatura tra le confederazioni sindacali. Solo nel 1980, Berlinguer decise una vera e radicale svolta, incontrando un grande consenso nella base del partito e una forte resistenza nel vertice, resistenza che, al solito, Amendola per primo aveva resa limpida con un articolo su Rinascita, che aveva avuto grande eco. Perché era un pamphlet contro «tutti i cedimenti compiuti, dal Sessantotto in avanti, a favore dell’estremismo»